Nel nostro mondo controllato da uomini, in cui mastichiamo ogni giorno misoginia – pratica e teorica -, la misandria è tanto lontana da non comparire neanche, come aggettivo in italiano, tra i risultati di Google. Bruce LaBruce la scaraventa direttamente nel titolo del suo ultimo film, un richiamo allettante che si rivela invece fin da subito un pretesto provocatorio; difficile vederci un reale ribaltamento della realtà, ma piuttosto una critica a tutti gli estremismi, a tutte le forme di discriminazione e di categorizzazione.
A partire dall’ambiente militarizzato della cellula terroristica FLA (Female Liberation Army), tra parate e addestramenti, e senza dimenticarsi di includere la gerarchia ecclesiastica, condita di dogmi e preghiere, incarnata nella direttrice del collegio – una Susanne Sachsse (attrice feticcio del regista) vestita da monaca e chiamata esplicitamente Big Mother.
Addirittura, a monito dell’assurdità di ogni estremismo religioso, una preghiera femminista: “Sia benedetta la Dea di tutti i mondi che non mi ha fatta uomo”, rivalsa della preghiera ebraica del mattino, con la quale si ringrazia esattamente per l’opposto, che ci ricorda anche il nostro usuale – e tutt’ora usato – “auguri e figli maschi”.
Tra echi figurativi di Rocky Horror Picture Show e una fotografia in equilibrio tra la crudezza dell’intervento chirurgico e lo splatter pittoresco (la potenza del sangue kubrickiano in Shining sembra aver schizzato direttamente i vestiti delle ragazze spettatrici), LaBruce attualizza delle citazioni teutoniche: la ribelle Isolde cura sessualmente il soldato Volker (da Volk, persona qualunque) esattamente come la Isotta wagneriana curava amorevolmente il cavaliere Tristano.
Nella casa fiabesca in cui ci si prepara all’eliminazione del patriarcato, l’unione identitaria delle lesbiche si dimostra anche con il ciclo mestruale sincronizzato (un mito dell’universo maschile, una stregoneria che nella realtà, sì, accade, ma senza regole né regolarità). E non è un caso se a rompere questo idillio lesbico sia proprio Isolde (interpretata da Kita Updike, modella transessuale): la sua transessualità, denunciata da una compagna sul finale, la rende automaticamente diversa, imperfetta in questo utopico angolo di mondo epurato di ogni elemento maschile.
Non c’è utopia né distopia nel mondo del regista-esteta, ma la critica ironica (anche se forse un po’ troppo maschilizzata) di ogni binarismo, sia esso di genere che di orientamento sessuale.
Foto: Some Prefer Cake
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