di Alessandrə Rodi e Francesco Mancinelli
Contaminazione, alterità, rinascita: sono le parole chiave di Frankenstein. A love story, l’ultimo lavoro di Motus, compagnia teatrale fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, presentato in anteprima il 13 e 14 ottobre all’Arena del Sole di Bologna.
Da sempre attentə alle storie di freak e outsider, con uno sguardo lucido sulla contemporaneità, Motus guarda a Mary Shelley e Frankenstein come a un momento topico della cultura e della letteratura mondiali, nelle quali trova spazio per la prima volta la voce di una scrittrice antisistema, portando in scena vite, nevrosi e corpi mostruosi.
Se pensavamo che il mostro in quest’opera fosse uno, ci siamo sbagliatə. Motus rompe subito questo preconcetto e ci chiede di demolire le nostre idee sull’alterità, affiancando alla creatura (Enrico Casagrande) il suo creatore, Victor Frankenstein (Silvia Calderoni), e a lui la sua creatrice, Mary Shelley (Alexia Sarantopoulou); l’incontro con i soggetti in scena ci pone davanti a un grande interrogativo dello spettacolo: di questi tre mostri, noi quale siamo?
Nella nostra epoca il personaggio e la persona di Mary Wollstonecraft Shelley facilmente trascolorano nel mito, nella mostruosità immaginifica già a partire dal trascorso biografico di questa giovane donna, poco più che adolescente: figlia dell’omonima filosofa e teorica del femminismo moderno, autrice della Rivendicazione dei diritti della donna (1792) e a sua volta considerata una strega, un mostro che la diede alla luce per poi morire poco dopo. Mary Shelley – il cognome con cui è passata alla storia è quello del marito, il poeta Percy Bysshe Shelley – è anche lei un mostro, almeno secondo i canoni del suo tempo: mostruose sono la sua mente, la sua immaginazione, le sue visioni di orripilanti creature assemblate, prodotti artificiali in barba alle leggi naturali della riproduzione.
Madre tanto della fantascienza per come la conosciamo oggi, tanto di quell’«orrenda progenie» che non sono solo le sue idee pericolose, contro il canone patriarcale – e il romanzo stesso Frankenstein – ma anche il semplice atto del pensare in quanto donna: «una donna che pensa dorme con i mostri», scrive Adrienne Rich, poeta e teorica lesbica.
Mary Shelley, primo mostro di questa storia, si aggira in scena in preda a uno straordinario flusso creativo, spaventandosi del suo corpo e della sua mente. In Mary si concentrano tutte le suggestioni politiche del testo di Ilenia Caleo: diritto all’ autodeterminazione, alla riproduzione, antispecismo. Tutto questo dona nuova vita al suo corpo, che, apparentemente normale, si esprime in tutta la sua non conformità di madre imperfetta e di geniale autrice, capace di rompere l’equilibrio di un mondo di maschi e di fare, attraverso un libro, una rivoluzione. Mary Shelley è, ancora nella nostra epoca, simbolo di un coraggio insperato e inossidabile.
Se il corpo dell’autrice è portatore di messaggi di alterità e contaminazione, quello di Victor Frankenstein lotta contro questa natura. Victor diventa un mostro quando decide di spingersi più in là di quanto nessuno abbia mai fatto prima, di ergersi a creatore, prendere il potere della vita nelle sue mani e donarlo a qualcosa di inanimato. Victor fa quello che fanno gli esseri umani, crede di potersi porre al di sopra della natura e avere successo, allontanandosi da un’idea di armonia con i ritmi del mondo e scappando quando ciò a cui ha dato vita lo spaventa.
Si instaura così un rapporto di compassione attiva tra spettatorə e personaggi, palco e spettacolo stesso che, tuttavia, si crea solo se c’è una consapevolezza profonda in chi guarda: è ciò che scaturisce dal senso di appartenenza a una comunità che vive i temi di Frankenstein e vissuti dalla Creatura. Chi siamo noi, dunque? Per chi fa parte della comunità LGBTQIA+ l’identificazione con la Creatura viene da sé. In moltə abbiamo attraversato spazi in cui ci siamo sentitə estraneə, non volutə, rifiutatə, vivendo questo dolore e lasciando che ci trasformasse in una comunità di persone che sa riconoscersi in temi quali l’autodeterminazione dei corpi non conformi, i processi di (dis)identità, la riproduzione non tradizionale e non eterosessuale.
La «storia d’amore» vissuta dalla creatura parla della potenza trans-formativa dell’immaginazione, data come la possibilità di vedere il mondo come fosse la prima volta. È facile rimanere rapitə dalla bellezza e dalla varietà di ciò che esso contiene ed è altrettanto facile comprendere quanto questo mondo sia chiuso e quasi impermeabile alla novità che noi rappresentiamo: creature e mostri. Non può non affascinare come la Creatura, di fronte al rifiuto e alla paura, riaffermi la sua volontà di vivere libera, di conoscere e riprodursi. In ultima istanza, di amare. Frankenstein. A love story di Motus ci parla, attraverso la voce di Mary Shelley, contaminata con quella di creature, mostri e scrittorə e teorichə della comunità LGBTQIA+, di un atto d’amore che è anche un atto di desiderio e proprio per questo, la nostra stessa esistenza diventa un atto politico.
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