Apro il rubinetto e lascio scorrere l’acqua per un po’. Prendo il rasoio. Comincio a radermi partendo dalle basette, vado verso il basso. Adesso ho il viso pulito e sembro mia madre. Ecco, è arrivato il momento: non vedo i miei parenti da cinque anni. Ma ho scelto io di essere qui, quindi spalle dritte, petto in fuori – per quanto possa essere possibile con un binder – e pugni chiusi. I parenti sono già tutti dentro la sala principale, manca solo mio nonno. Mia zia ci accoglie con un sorriso enorme, così grande da farmi paura. Mi abbraccia, ma il suo abbraccio è cauto, quasi guardingo.
Suona il campanello, è mio nonno, stranamente in ritardo. Quando lo vedo mi assale un profondo senso di tristezza, è invecchiato tantissimo. I suoi occhi sono cambiati, sono più spenti e opachi. Anche le sue rughe sono cambiate, come se tra i solchi dell’età si fosse insinuata un’ombra. Non so bene cosa fare, quindi rimango in piedi, paralizzato accanto al divano. Si avvicina lui e mi abbraccia. Questo però non è un abbraccio guardingo, ma schietto. Non mi chiede nulla, mi abbraccia soltanto e poi va a sedersi per divorare gli antipasti. Mi assegnano il posto all’analcolico tavolo dei piccoli – anche se ho 25 anni e il mio corpo si avvia verso il decadimento fisiologico. Per circa due ore nessuno mi rivolge la parola, tranne l’invidiosa e verghiana zia acquisita che ostenta il mio nome per mostrare la sua apertura mentale. Ma davvero credono di darmela a bere? Filistei misoneisti di destra, l’unica cosa che bevo è il vostro vino.
Arriva il momento dei regali. Mio nonno si avvicina e mi consegna una busta con dentro del denaro. Continuo a leggere il nome sulla busta “Andrea” scritto con una grafia da quinta elementare, è stato sicuramente lui a scriverlo. La lettera “A” è così deforme e buffa. Mi viene da piangere, trattengo le lacrime e mi si forma un nodo alla gola. Cerco di non mostrare i sentimenti perché da noi si fa così. Mi sento stordito e non è colpa del vino, è colpa delle emozioni che non voglio provare. Perché sono stanco di sentire troppo. Sono stanco della pietà e dell’assenza, della nostalgia verso una città che mi ha riempito di pugni mentre nelle strade urlavo il mio nome. Nessuno voleva ascoltarlo e adesso tutti lo pronunciano scandendo ogni fottuta lettera, credendo che questo basti a colmare il vuoto che hanno contribuito a scavarmi dentro. Mio padre osserva prima la busta che ho tra le mani, poi me, e dice: «Quanto ti ha dato?». Ma cosa cazzo mi frega dei soldi. Mio padre e i suoi stramaledetti soldi. Rispondo: «Non lo so e non mi interessa» e continuo a trattenere quel rospo in gola che comincia a farmi male. Poi arriva finalmente il momento di andar via. Quando mi avvicino a mio nonno, lui sussurra: «Ti voglio bene comunque».
La cena è finita, rimangono solo gli avanzi sul tavolo come cadaveri abbandonati sul campo di battaglia, le candele si sono spente, il fuoco è morto lasciando residui di cera sulla tovaglia.
E io sono vivo, comunque.
pubblicato sul numero 43 della Falla, marzo 2019
immagine realizzata da Mara Santinello
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