FENOMENO ANTICO, RESPONSABILITÀ NUOVE

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Negli ultimi anni, si è affacciato nel dibattito politico e giornalistico un tema che ha preso piede al punto da essere ormai al centro di svariati problemi: si tratta delle cosiddette fake news. Sono, queste, semplicemente notizie false, bufale, dilaganti nelle nostre vite in modo esponenziale da quando Internet e social media si sono imposti nella quotidianità. La vulgata odierna, presente più o meno sulla bocca di tutti, vuole che siano proprio queste due ultime realtà ad aver scatenato il problema; a ben guardare però sembra che la questione vada meglio contestualizzata. 

Innanzitutto non si è affatto davanti a una novità: nei tempi antichi e moderni la proliferazione di notizie false ha una storia autorevole. Si potrebbe spaziare dalla Donazione di Costantino fino al discorso di Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 2003 (incentrato sull’accusa all’Iraq di possedere armi chimiche secondo una fonte che poi ha ammesso di essersi inventata tutto), giusto per citare un paio di esempi. I giornali non sono mai stati esenti dalla diffusione di notizie erronee o inesatte, salvo ovviamente l’obbligo successivo di rettifica (come previsto dalla legge professionale). Senza dubbio, Internet e i social hanno fornito un nuovo humus alle fake news, soprattutto per le conseguenze intrinseche delle loro funzioni: a differenza del passato, dove la gestione dell’informazione era comunque appannaggio di enti e agenzie dedicate, al giorno d’oggi ogni persona, grazie a un semplice smartphone, è una potenziale produttrice di contenuti e quindi, verosimilmente, anche di notizie. Questo semplice aspetto si è tramutato in un fenomeno che viene definito “sovraccarico informativo”. 

I contenuti prodotti in questo modo sono scevri di quelle peculiarità che dovrebbero essere alla base del lavoro giornalistico, in primo luogo perché non compete alla persona qualunque l’onere del controllo dei fatti (il tanto nominato fact checking) e in secondo luogo perché la dinamica che sta dietro alla condivisione di contenuti online è quella dell’appagamento derivante dalla reazione ai contenuti stessi. 

A questo fa seguito quello che pare essere il vero problema alla base del dilagare delle fake news: il modello economico instauratosi nel web. Ogni click, nel mondo online, corrisponde a una visualizzazione e il numero totale di visualizzazioni è il metro di giudizio per gli inserzionisti pubblicitari. La triste e banale verità ci riporta al problema del profitto. Titoli d’effetto e articoli che colpiscano la tanto famigerata «pancia» del lettore sono utili a generare click. A questo ha fatto seguito la nascita sempre più frequente di siti web interamente basati su notizie false e lauti banchetti per chi voglia acquistare spazi pubblicitari. In questo frangente sono stati proprio i giornali a perdere la bussola e complicare le cose. Le redazioni online di svariate testate, pure autorevolissime, si sono piegate al piano di business offerto dal web e hanno iniziato a trattare le notizie come commodity (termine usato in ambito economico per indicare le materie prime). L’assioma creatosi è stato quello di generare un parallelismo tra visualizzazioni e copie vendute, e per aumentare le prime ci si è dovuti adeguare al mondo dell’informazione veloce, sia per toni che per forma dei contenuti. Il triste risultato di questa deriva è che per il fruitore dell’informazione, il lettore, è diventato molto difficile distinguere la notizia autorevole dalle altre, proprio perché online le testate giornalistiche hanno perso la capacità di rendersi riconoscibili per linea editoriale e approccio ai pezzi prodotti. Hanno perso la propria identità.   

Qui si aprirebbe un dibattito importante sulla consapevolezza che la sostenibilità del giornalismo non dovrebbe essere legata unicamente alla capacità di attrarre inserzionisti; sarebbe anzi prezioso, secondo alcuni, riuscire a sfuggire alla dinamica delle fast news per entrare nel mondo dello slow journalism. Sono diversi gli esempi di questa nuova sottocultura dell’informazione, teorizzata anche da studiosi come Peter Laufer; uno su tutti il Delayed gratification, un trimestrale cartaceo britannico che si occupa delle notizie certe del trimestre passato. Con questo non si vuole invitare ad abdicare alla volontà di diffondere notizie in tempi rapidi, è questa parte importante del mestiere giornalistico, ma non è forse necessario parlare subito di ogni notizia senza avere prima controllato, riflettuto e filtrato il mare di informazioni che si propaga al giorno d’oggi. Proprio il secondo articolo della Legge Professionale 69/1963 recita:

«È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori».

Il rispetto di quella «verità sostanziale» dovrebbe far riflettere. Non si chiama qui in ballo la Verità con la “V” maiuscola, ma la necessità di tornare a contribuire a una descrizione condivisa della realtà, fondamentale per la democrazia stessa. 

In assenza di questo piano interlocutorio, ci si trova a essere un insieme di tribù isolate e litigiose, chiuse nelle proprie echo chambers, le proprie bolle mediatiche. Un giornalismo serio e responsabile dovrebbe avere come obiettivo quello di farle esplodere. 

Se da un lato Internet ha prodotto malauguratamente questo genere di conseguenze, dall’altro offre agli utenti uno strumento in grado di aiutarli a disinnescare i problemi descritti sopra. Informarsi richiede impegno, controllo delle fonti, attenzione alle sbavature e al linguaggio utilizzato, non basta fermarsi davanti al titolo di un link condiviso su Facebook o su Twitter. Il mondo dell’online ci dà comunque modo di verificare, almeno in parte, l’attendibilità di ciò che ci si trova di fronte. Questo come lettori e come diffusori di contenuti: dalla possibilità di diffondere notizie deriva la responsabilità di farlo coscienziosamente, senza cedere alla «pancia», e riuscendo ad ampliare la nostra narrazione, confrontandola con altre e trovando un terreno comune di comprensione, ricostruendo la verità di cui sopra. 

Le fake news esistono perché vengono alimentate e nutrite, è compito di ogni persona, secondo gli strumenti dati, cercare di metterle da parte.