Esiste la moda senza genere?

di Ethel Gallo

È ancora il tempo del rosa per le bambine e dell’azzurro per i bambini? Con grande dispiacere di coloro che sostengono che il complotto gender confonde i bambini e li fa diventare gay, si evidenzia una graduale apertura a una componente di fluidità nell’espressione del genere; fenomeno che è lo specchio di una tendenza espressa sempre di più dalle nuove generazioni.

È questo il pubblico di consumatori, millennials e Generazione Z a cui comincia a interessarsi il mercato: non a caso si parla in misura crescente di campagne friendly che usano questioni care alla comunità LGBT+ per attirare clienti.

Vi è infatti un problema di fondo: pur offrendo una buona quota di visibilità a chi desidera avere accesso a vestiti che non si conformino alle convenzioni di genere, gran parte di queste iniziative sono collocabili sul piano del marketing sfacciato. Tra i marchi di fast fashion si tratta di una pratica collaudata: nel 2016, Zara ha lanciato una collezione unisex; per la primavera/estate 2019, è stata la volta di H&M. Proprio quel termine, unisex, è diventato sinonimo di capi senza vincoli di genere. Peccato che la linea di Zara si trovasse nella sezione donna e presentasse vestiti tradizionalmente maschili re-inventati in chiave femminile. Dalle preview della collezione di H&M sembra che la storia si ripeta: mancano del tutto gonne e abiti, troneggiano pantaloni e colori neutri.

È moda senza genere, ma rimane nel mainstream, non vuole rischiare di perdere una parte di potenziali clienti e vuole anzi disperatamente attrarne dei nuovi. Non è certo la prima contraddizione presente nel fast fashion. Basti pensare alla tendenza, ormai in voga da un paio di anni, di stampare motti che inneggiano al femminismo e condannano il patriarcato su magliette cucite per lo più da donne che lavorano nei moltissimi sweatshop in Bangladesh e dintorni, rischiando la vita per guadagnare una manciata di dollari al giorno.

I grandi brand della moda continuano a piegarsi alle esigenze di mercato e di marketing: sono pochi i nomi che hanno deciso di rischiare davvero, anche solo in parte, per rappresentare esigenze che sempre più persone hanno. Gucci, con la campagna Chime for Change, iniziata a gennaio, ha voluto dar voce a persone non binarie provenienti da tutti gli angoli del mondo, facendo un passo indietro e lasciando a loro la parola nel corto The Future is Fluid. È innegabile che sia una campagna pubblicitaria d’effetto, che al contempo veicola la voce di chi rimane spesso in silenzio.

Inoltre, qualcuno ha, finalmente, pensato anche ai bambini e alle bambine: Celine Dion ha lanciato, nel dicembre dello scorso anno, una linea di vestiti per neonati e ragazze effettivamente genderless. Soprattutto nel panorama statunitense, la sua decisione l’ha resa oggetto di pesanti critiche.

L’accessibilità a vestiti realmente svincolati dalle convenzioni di genere rimane, a oggi, ancora un’utopia. Per quanto sia confortante sapere che si stanno facendo dei passi verso una nuova tendenza nella moda, una fluidità che permetta a tutti di scegliere come vestirsi secondo i propri gusti e non secondo ciò che è più consono per la società, sono passi lenti e arrancanti. Nessuno nel mondo della moda mainstream – tranne Celine Dion – ha ancora liberato le bambine dal rosa e i bambini dal blu.

pubblicato sul numero 43 della Falla, marzo 2019