Definire e ridefinire le relazioni

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“Quando viene, verrà senza avvisare, proprio mentre mi sto frugando il naso? Busserà la mattina alla mia porta, o là sul bus mi pesterà un piede? Accadrà come quando cambia il tempo? Sarà cortese o spiccio il suo saluto? Darà una svolta a tutta la mia vita? La verità, vi prego, sull’amore”.

Se lo chiedeva il poeta W.H. Auden poco meno di un secolo fa, se lo chiedevano gli antichi, e continuiamo a domandarcelo anche noi,  oggi. Certo, ne esistono molte declinazioni possibili, ma il tipo di amore che da sempre porta estasi e grattacapi – non sempre equamente distribuiti – agli esseri umani è senz’altro quello con connotazioni erotico-sentimentali.

Lo riteniamo il più individuale e soggettivo dei sentimenti, e, quando siamo preda della passione sfrenata o della più cupa sofferenza, siamo inclini a ritenerci unici: “Nessuno ha mai avuto un orgasmo così squassante, nessuno ha mai sofferto così, prima”. In questi momenti, poco importa se nelle ultime migliaia di anni l’amore è stato uno dei, se non il, soggetto principale delle arti. Al di là della nostra narrazione individuale che ci vuole tutti eroi ed eroine di storie fantastiche, la verità è che nulla sfugge all’opera di modellamento da parte della cultura in cui si vive, e nemmeno l’amore fa eccezione.

L’Occidente, dal quarto secolo A.C., è rimasto stregato (e soggiogato) dall’ideale platonico espresso nel Simposio attraverso un racconto mitologico fondativo per il nostro concetto di amore. Gli esseri umani una volta erano uniti due a due, tondi, con una testa, quattro gambe e quattro braccia. Potevano essere uomini, donne, o androgini, se composti da una metà femminile e una maschile; vennero separati da Zeus, per smorzarne l’arroganza. Da allora, ogni essere umano è in cerca della sua metà perduta, e l’atto sessuale non è che il tentativo, sempre imperfetto, di riuscire a fondersi di nuovo nella completezza.

Se l’ideale  ultimo dell’amore è, fatte le dovute tare, più o meno sempre questo da quasi 2500 anni, sono invece cambiate moltissimo le modalità con cui si è concretizzato nel corso della storia. Fino a un paio di secoli fa, il matrimonio era inteso come mero contratto sociale, l’amore poteva semmai arrivare dopo le nozze, con la conoscenza, ma era un optional, e sia la passione carnale che l’amore stilnovistico, fatto di adorazione da lontano per l’amato bene, si cercavano altrove, o si faceva senza.

Oggi l’istituto del matrimonio è in crisi, e pare che sposarsi interessi soprattutto a froci e lesbiche, certamente per la questione dei diritti del contratto sociale negati a causa dell’orientamento sessuale, ma anche per realizzare un sogno d’amore che, vista la transitorietà di certezze e sentimenti della vita contemporanea, appare quasi fuori dal tempo, per non dire fuori tempo.

Ci aspettiamo davvero troppo dalla coppia, e per estensione dal matrimonio. La solitudine e la scarsità di reti sociali solide, ci fa pretendere che l’altro da noi con cui instauriamo una relazione sia il nostro tutto: il nostro amante, la nostra famiglia, la nostra dama di compagnia, il nostro giullare, la nostra àncora. È abbastanza evidente che una pressione di questo tipo, non solo sul lungo periodo, ma anche sul medio, sia troppo per chiunque. Quindi o ci si annienta nell’altro, come tradizionalmente richiesto a una brava moglie, o ci si lascia, e avanti un altro, in nome della monogamia seriale. Crediamo che stare in una relazione sia difficile perché l’amato bene non è quello giusto, e che quando lo troveremo saranno solo arcobaleni lastricati di zucchero. Esigenze opposte si scontrano dentro di noi. Non vogliamo stare da soli ma, influenzati dal capitalismo, come sostiene Zygmunt Bauman, abbiamo paura di toglierci dal mercato, perché un’opportunità migliore potrebbe sempre presentarsi in futuro. Desideriamo i pro di una relazione, senza l’aggravio dei contro, ritenuti demodé e poco consoni ai ritmi contemporanei: l’impegno costante, il dono di sé disinteressato, consapevoli dell’incertezza dell’esito, e quindi esposti alla vulnerabilità e alla sofferenza.

Dalla fine degli anni ’60, con la liberazione sessuale, si è andata affermando una modalità differente di stare in relazione: il poliamore, oggi divenuto un termine-ombrello che sta a indicare tutti i tipi di relazioni sessuali e/o sentimentali non monogamiche. Escludendo dal computo le innumerevoli infedeltà nelle coppie monogame, il poliamore è una modalità numericamente minoritaria di rapportarsi all’altro da sé. Sfida le narrazioni dominanti della coppia, a partire dall’idea diffusa, di chiara derivazione platonica, che in ambito sentimentale esista un’economia della scarsità, cioè che abbiamo poche occasioni di incontrare la persona davvero giusta per noi.

In certi ambienti, che già per altri aspetti si pongono in modo critico rispetto allo status quo sociale, come l’attivimo Lgbt+ e alcuni femminismi, il poliamore è visto anche come un modo efficace di decostruire il senso di possesso che spesso viene scambiato per amore, o che vi si sovrappone malamente. È indubbio che, in un mondo ancora patriarcale, l’idea, capitalistica ed egemone, dell’amore romantico, sostenga l’assoggettamento femminile. Il paradigma del principe azzurro, da attendere passivamente e che porterà alla fanciulla l’unica felicità possibile, quella dipendente da un’altra persona, è piuttosto autoesplicativo in tal senso. Forse anche per questo, i gay sono in genere più abili a gestire il poliamore di quanto non siano le lesbiche, pur sempre socializzate come donne e quindi nell’attesa, magari inconsapevole, di un grande amore salvifico. Intraprendere questa strada è molto più stancante di quanto appaia, visto che bisogna negoziare tutto coi partner, e che ciò serve a gestire la gelosia e, spesso, a mantenere una gerarchia di qualche tipo, per esempio tra partner primario e partner secondari. Esiste poi una minoranza ancor più piccola di persone che, rifiutando in toto il concetto di gerarchia, si è data all’anarchia relazionale, che prevede un approccio di apertura totale. Non si decide che forma avrà la relazione, ci sono pochissime regole, e c’è un’indisponibilità di fondo anche solo a definire una relazione in termini di amicizia o amore.

Il poliamore e l’anarchia relazionale sembrano molto adatti alle esigenze di una dimensione economica e sociale caratterizzata da forme di precarietà sempre più estreme, ma non risolvono in modo definitivo le contraddizioni tra il desiderio di condivisione e l’ansia di un impegno che percepiamo come troppo gravoso. Se praticate con onestà, messa in discussione degli assunti culturali cristallizzati dentro l’individuo, comunicazione costante, non sono certo forme di relazione leggere e spensierate.

La questione inevitabile, in fin dei conti, è che relazionarci con gli altri, qualsiasi forma assuma il nostro rapporto, è il compito più faticoso ma potenzialmente più appagante che gli esseri umani svolgano durante la loro vita.

pubblicato sul numero 32 della Falla – febbraio 2018