teoria ibrida della visibilità invisibile nel calcio femminile
di Paola Guazzo
Il pubblico più impegnato, sempre alla ricerca non dico di una Megan Rapinoe ma semplicemente di qualche momento in cui i corpi e le parole siano un po’ meno scissi, se ne vadi all’estero o su Instagram a vedere quanto se ne sbattono alcune americane di essere lesbicissime, quanto ne hanno fatto un’immagine di sé a tutto campo, serena, potente e felicemente identitaria. Lesbica non solo non è un insulto, è un valore anche di gruppo che molte vivono quotidianamente, ognuna nel suo ambito. Ed è vero anche il contrario: «you’re only as sick as your secrets» diceva Rita Mae Brown, scrittrice lesbofemminista americana che indusse la sua fidanzata Martina Navrátilová a fare coming out. Erano gli anni Ottanta del secolo scorso, ed esistevano ancora gli orologi a cucù nei tinelli delle nostre eterissime nonne Papere. Ora il coming out conviene solo a chi è sicura di essere sponsorizzata da un opificio del lavender washing, dalla carta di credito al reggiseno sportivo? Un coming out deve convenire, o accadere perché fa parte di te vivere senza nasconderti?
Mi scrive un’amica «Ma le segui su Instagram le due calciatrici americane che stanno ufficialmente insieme, la Krieger e la Harris? Devi! Delle bellone favolose». In effetti, anche da eterissima, sinonimo di italianissima, so apprezzare il lato estetico. Mi accorgo che anche un gruppetto di giocatrici dell’italica nazionale le segue. Loro, e anche alcune di altre nazionali che hanno fatto coming out. Ovviamente solo come esempi sportivi. Professioniste e sponsorizzate dalle multinazionali. Eterissime.
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