Nel 1978, a un poco più che ventenne Thierry Voeltzel venne proposto di pubblicare un libro di conversazioni. All’epoca non era null’altro che uno sconosciuto militante maoista del movimento di liberazione omosessuale francese. Per evitare di oscurare quanto il ragazzo aveva da dire, il suo interlocutore decise di mantenere l’anonimato. Solo in seguito si scoprirà che il misterioso intervistatore era Michel Foucault.
Il testo, intitolato Vingt ans et après, è rimasto inedito in Italia fino a marzo 2020, quando è stato pubblicato dall’editore Meltemi per la cura di Lorenzo Petrachi e Melania Mariconda. Il dialogo tra i due amici e amanti tocca svariate tematiche, alcune autobiografiche altre teoretiche. Una delle più urgenti, oggi più di ieri, è quella dell’amore. Nella parte del testo in cui si tratta direttamente del tema è Foucault stesso ad aprire la discussione partendo da qualcosa che l’aveva profondamente colpito: mai Thierry aveva descritto le sue esperienze con il termine “amore”.
Il ragazzo conferma, affermando di non aver mai capito che significasse essere innamoratə o dire ti amo. Si spiega dicendo che preferisce farlo, piuttosto che parlarne: «quelli che parlano d’amore in continuazione, non li si vede mai farlo; […] Mentre tutti coloro che ho incontrato che ne parlavano meno o che non ne parlavano affatto, lo facevano, e andava alla grande». Nonostante l’assenza della categoria dell’amore, nota Foucault, ogni esperienza di Thierry è permeata di una grande varietà e intensità di sentimenti ed emozioni. Non si tratta di rapporti anaffettivi o senza impegno, tutt’altro: «Sei incredibilmente coinvolto in ciò che provi per qualcuno, […] non c’è posto per la contrapposizione tra provare o fare l’amore; ma c’è tutta una panoplia, tutta una gamma di sentimenti intensi, ricchi, colorati, e nient’affatto quella cosa monotona e nera che sarebbe l’amore e nella quale solitamente facciamo sprofondare il rifiuto di fare l’amore e quello di qualsiasi altra forma di sentimento».
Come spiega l’introduzione di Petrachi, è possibile illuminare quanto i due si dicono rifacendosi al corso che il filosofo tenne a Lovanio nel 1981. Anche la confessione amorosa, come ogni forma di confessione e di dire il vero su un soggetto, va inscritta in una relazione di potere: dire “ti amo” non è semplicemente dire qualcosa di vero, ma ha un suo costo d’enunciazione. Ciò significa che vincola chi la pronuncia a modulare il proprio comportamento in stretta osservanza di quell’enunciato, proprio perché vero.
Di fatto «la confessione è un atto verbale attraverso cui il soggetto fa un’affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti degli altri, e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso». Ogni relazione, alla fine, giunge terribilmente a quella domanda dicotomica che è «lə amo o no?», e in base alla risposta che si dà tutto cambia: o è amore vero o è solo una scopata e, di conseguenza, si esclude qualsiasi intensità e coinvolgimento. Tutto ciò che non rientra nell’amore è reso sterile e asettico.
L’amore, quindi, rientra in ciò che Foucault chiama «dispositivo», cioè «un determinato modo di strutturare il reale in vista di un certo numero di effetti», il rapporto di potere che sussiste tra due (o più) persone consiste nella governamentalità, cioè nella capacità di strutturare il campo di azione altrui. Governare le altre persone si concretizza proprio in una rete di dispositivi, tra cui vi è anche la confessione amorosa. Sbarazzarsi dell’amore rappresenta un tentativo di sfuggire a una delle strategie che ci soggiogano, tentativo imperniato sul dedicarsi a una molteplicità di rapporti a margine e senza copione, in cui nulla è già stabilito ma tutto è da congegnare. Le relazioni da perseguire sono quelle senza nome e senza forma, quelle dove le nostre energie sono concentrate nel prenderci cura di noi stessi e delle altre persone coinvolte, dove non siamo assoggettatə da qualcos’altro ma siamo soggettività che, attivamente, si costruiscono.
È questa l’ottica in base alla quale va letta l’esperienza di Thierry; questi è, per Foucault, colui che concretamente è riuscito a disinnescare l’amore e il suo significato monotono e binario. La sua vita è più di una biografia individuale e contingente. Rappresenta, a tutti gli effetti, l’affermazione della possibilità che Foucault tratteggia in L’amicizia come modo di vita: «Un altro aspetto di cui bisogna diffidare è la tendenza a riportare la questione dell’omosessualità al problema del “chi sono? qual è il segreto del mio desiderio?”. Forse sarebbe meglio chiedersi: “Attraverso l’omosessualità, che relazioni si possono stabilire, inventare, moltiplicare, modulare?”. Il problema non è scoprire in sé stessi la verità del proprio sesso, ma piuttosto, d’ora innanzi, usare la propria sessualità per arrivare a una molteplicità di relazioni. […] Dobbiamo ostinarci, perciò, a divenire omosessuali, e non ostinarci a riconoscere di esserlo».
Questo invito a divenire omosessuali, di cui la vita militante di Thierry ne è l’esempio realizzato, rientra nel tema della cura e del governo di sé, così centrale per l’ultimo Foucault, che risulta fondamentale non solo per il piano personale ma anche per quello politico, perché «dopotutto, non esiste un altro punto […] di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé».
Immagine in evidenza da www.imesi.org
Immagine 1 da www.meltemieditore.it
Immagine 2 da operavivamagazine.org
Perseguitaci