Florida: vietato parlare di orientamento e identità sessuale.

di Mara Boselli con la gentile collaborazione di Enrico Gamba

Cavalcando l’onda di leggi che prendono di mira giovani queer nelle scuole, negli sport e in ambito medici in tutti gli Stati Uniti, la Florida, dal 1° luglio, vara i Diritti dei genitori nell’istruzione, norma meglio conosciuta come «Don’t say gay». Il governatore repubblicano Ron DeSantis, lo scorso 9 marzo, ha firmato il testo, approvato a larga maggioranza (70 voti favorevoli contro 38 contrari), in cui si proibisce a insegnanti ed educatori di parlare di temi o persone LGBT+ nelle classi dello Stato che vanno dalla materna fino alla terza elementare. Secondo il nuovo regolamento «un distretto scolastico non può incoraggiare la discussione sull’orientamento sessuale o l’identità di genere». Tocca solo e soltanto ai genitori decidere quando e in che modo introdurre argomenti come questi a* propri figl* tanto che, se la regola verrà violata, la famiglia avrà il diritto di citare in giudizio il distretto; per DeSantis «insegnare a bimbi e bimbe dell’asilo che possono essere quello che vogliono è inappropriato. È qualcosa che non è adeguato in nessun posto, ma specialmente non in Florida».

Perché specialmente in Florida, non ci è dato sapere; però, gli scudi in difesa dei diritti queer si sono levati in tutta America, e persino la Casa Bianca l’ha definita una legge crudele. La Disney – potenza economica che con i suoi parchi tematici per bambin* e ragazz* (ma non solo) foraggia due contee solo in Florida – arriva in ritardo, ma alla fine si schiera. La società di Burbank prima nicchia, evitando di esprimersi riguardo la nuova legge, ma poi manifesta il suo dissenso dichiarando che «La Don’t Say Gay non avrebbe mai dovuto passare e non avrebbe mai dovuto essere firmata. Il nostro obiettivo come azienda è che questa legge sia abrogata o annullata; manteniamo il nostro impegno a sostegno delle organizzazioni nazionali e statali che lavorano per raggiungere questo obiettivo». Ormai, però, il danno è fatto e molt* dipendent* hanno preso le distanze da Disney – effetto che potrebbe anche portare alla piacevole formazione di altre realtà lavorative, più attente alle persone LGBT+ e ai loro diritti. 

Già, perché la posizione di Topolino nei confronti della comunità è da sempre ambigua. Perché, ad esempio, i personaggi più queer della Disney sono una crudele e potente strega del mare e un ambiguo e malvagio stregone esotico? Perché tutto quello che porta la firma del vecchio Walt è frutto di un compromesso equidistante da ogni posizione politica. E se oggi schierarsi a favore dei diritti della comunità arcobaleno è una presa di posizione, fino a qualche decennio fa Mickey e i suoi hanno potuto dribblare. Allora nessuno si sarebbe stracciato le vesti se, all’interno di una storia, non si fosse rappresentata anche una parte della nostra minoranza e, quindi, non ce la mettevano. Esattamente come facevano con le persone afroamericane a lungo dimenticate e bistrattate, basti pensare ai tre corvi di Dumbo (1941) o a I racconti dello zio Tom (1946); poi, però, l’azienda ha avuto il tempo di inserire gradualmente tutta una serie di personaggi e abituare il pubblico – anche quello più ostile – all’idea che esistono molteplici etnie nel mondo. 

Oggi abbiamo a disposizione una valanga di informazioni e fare le pulci a un marchio perché poco sensibile in un certo ambito è molto facile. Troppo perché non lo si faccia e mettersi a contare in quanti lavori siamo presenti personaggi LGBT+ è un gioco da ragazzi, ma porta con sé un pericoloso rovescio della medaglia: per la comunità arcobaleno, la spiacevole sensazione che un’azienda voglia inserire gay, lesbiche, bisessuali e trans ad ogni pie’ sospinto. Non è una partita semplice, quella dei cartoni animati, in bilico fra l’indifferenza e il rainbow washing: tutt* vorremmo essere rappresentat* e poterci identificare in personaggi realistici, ancor prima che positivi; i bellissimi tentativi di Howard Ashman – determinato paroliere gay, colui che ha contribuito a caratterizzare, fra gli altri, Ursula de La sirenetta (1989) e Jafar in Alladin (1992) – potrebbero non bastarci più. Noi non siamo solo villain da ricordare: siamo la poliziotta Specter che in Onward (2020) ha una moglie che l’aspetta a casa; siamo la compagna di Bonnie che in Toy Story 3 (2010) corre incontro alle sue due mamme e siamo LeTont che nel live-action de La bella e la bestia (2021) sceglie un uomo per il ballo o i due papà del sequel de La famiglia Proud (2022).

Personaggi minori che, però, legittimano a esserci e non rappresentano forzature stonate. Perché, se di musica vogliamo parlare, la prima apparizione di un personaggio esplicitamente omosessuale in casa Disney risale ai primi anni ’30: nella Silly Symphony – cortometraggi musicali antenati dei cartoni di oggi – intitolata Re Nettuno, dove un tizio tutto di rosa vestito si palesa ad una ciurma di marinai che fanno festa interagendo con loro con suoni e moine decisamente effeminate. Il pubblico in sala ride, i marinai pure, ma poi loro lo prendono a bottigliate in testa. E per incontrare un personaggio che potrebbe rappresentare in parte la comunità che sia completamente integrato nella storia ed accettato dai suoi pari, dobbiamo aspettare il 2002 con Lilo e Stitch. Pleakley, l’agente alieno che non riconosce la differenza fra abiti femminili o maschili e veste in uniforme e galloni quando in servizio, ma in sarong e parrucca quando è in borghese, da molti è considerato il primo personaggio apertamente queer nella storia di Topolino & Co. ed è potente e diretto perché, se è vero che nel pubblico il suo atteggiamento scatena ancora ilarità, nel cartone tutti lo considerano perfettamente normale, tanto da non farci nemmeno caso.

L’extraterrestre è se stesso e non agisce per obbligo o necessità come, invece, fa Mulan (1998) che viene riconosciuta crossdresser (un individuo cis-etero che ama indossare capi tipici del sesso opposto) e, quindi, parte della comunità LGBT+. Forse viviamo solo un’epoca di transizione, dove tutti i riflettori sono puntati su quali e quanti diritti abbiamo; forse dovremmo solo portare un po’ di pazienza e non dimenticarci che la prima principessa nera della Disney è Tiana ne La principessa e il ranocchio (2009), che se cerchiamo protagonisti grassi o anziani, ci tocca Up (2009) – che ne prende due con un colpo solo – e che la Mirabel di Encanto (2022) è la prima eroina con disabilità, e solo perché porta gli occhiali. I nostri modelli arriveranno, perché a Burbank sanno che, attraverso i loro prodotti ogni bambin* impara a conoscersi e a conoscere quel mondo che non può avere intorno a sé, ma che esiste.

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