È la seconda volta che Ahmed mi parla di sé; lo fa con voce piana, calma. Nasce in Mali e vive con la madre finché non si risposa; col patrigno le incomprensioni sono costanti, perciò trasloca da uno zio a Timbuktu, dove frequenta una scuola coranica. Un vicino di casa gli propone di lavorare a Sikasso, in miniera. Lì, Ahmed inizia una relazione clandestina con un collega, Omar, fatta di incontri fugaci nella casa in cui vivono con una decina di persone. Il venerdì è il loro giorno benedetto: i coinquilini vanno in moschea, sono soli per poche ore. Ogni due mesi, la miniera riceve Jean, un ricco francese che verifica le attività, per poi ripartire con oro e diamanti. Durante una di queste visite, Jean invita Ahmed a pranzo nella sua villa in città. Continuano a vedersi all’insaputa di Omar, e Jean insiste nel trasformare la loro amicizia in una relazione anche sessuale: Ahmed è restio, ma succede. Omar lo apprende, è furioso, minaccia di rivelare la sua omosessualità, e poi lo fa davvero.
I suoi cugini, arrivati a Sikasso, scoprono Ahmed mentre è seminudo con Jean nel giardino della sua villa. Offese, urla, minacce: Jean vuole chiamare la polizia, ma Ahmed lo prega di non farlo, vuole evitare che altre persone sappiano di lui.
I cugini lo prelevano, e lo caricano in auto verso casa dello zio, dove viene segregato. Insultato e malmenato, può andarsene solo dopo molti mesi. Tornato dalla madre, che gli dà un po’ di soldi senza permettergli però di restare, riparte alla volta del Burkina Faso. Qui trova lavoro come facchino in un supermercato e conosce Zongo, anche lui gay. Zongo, che nel frattempo è diventato il suo ragazzo, gli racconta dei suoi amici gay emigrati in Italia, dove, a loro dire, è possibile vivere tranquillamente. Ahmed è restio a intraprendere il lungo e pericoloso viaggio dal Burkina Faso all’Italia, ma la malìa di Zongo e gli incoraggiamenti degli amici in videoconferenza – “In Italia ci si può sposare!” – lo convincono. Prendono un bus fino al nord del Niger e, in una zona di frontiera, attendono la carovana di auto che li trasporterà alla prima città libica oltre confine. Arrivano, cambiano auto, si spingono più a nord ancora. Per tre settimane si fermano in una piccola città; quando finalmente arriva il via libera, ripartono: Tripoli li attende, come anche il ghetto in cui vengono subito stipati. Non possono uscire, o far nulla, solo aspettare che una barca sia disponibile a trasportarli in Sicilia. Un giorno, senza preavviso, li informano che possono partire. Pagano, si imbarcano e sono ormai in alto mare quando la guardia costiera libica li arresta e li riporta a Tripoli, in una prigione-campo di concentramento. Qui, i migranti arrestati sono torturati, affamati, è un inferno.
Questo è l’unico passaggio della storia che Ahmed non riesce a raccontare col suo tono abituale. Le parole s’inceppano, la gola raschia. Un giorno i secondini lo obbligano a stuprare una prigioniera, assistendo armi in mano. La ragazza rimane incinta e il bambino nasce in carcere. Lo chiamano Mohamed.
Ahmed non vuole abbandonarli, chiama perciò la madre per chiederle i soldi necessari a far uscire sia lui sia la ragazza e il figlio. I soldi arrivano.
E Zongo? In carcere con lui, lo prega di andarsene: “Parti, libera la ragazza e il bambino, non preoccuparti per me, io chiederò dei soldi ai miei genitori, quando esco ti raggiungerò”. Non si vedranno mai più.
Fuori dal carcere, i tre si separano: la ragazza e il bambino tornano in Costa d’Avorio, ma resteranno in contatto.
Ahmed ora è solo e davanti a un bivio: tornare indietro, o tentare nuovamente la traversata del Mediterraneo?
Trova una barca, paga per la seconda volta e, finalmente, sbarca in Sicilia.
Arriva in seguito a Modena, dove trova accoglienza e un lavoro.
“Tra qualche giorno mi daranno la carta d’identità”, mi dice.
Un pezzo di carta così semplice, ridicolo, eppure vitale per chi non ha documenti.
È questa solo l’ennesima, terribile storia che i migranti raccontano a chi vuole ascoltare?
Cosa dice di nuovo? Sto guardando dalla prospettiva sbagliata. La storia di Ahmed va osservata dalla conclusione, dal compiersi del suo tenace esercizio di dignità personale, che l’ha portato a vivere laddove non deve più nascondersi.
pubblicato sul numero 40 della Falla – dicembre 2018
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