C’è una stanchezza che attraversa questi tempi. Il 7 aprile scorso ero alla Casa dei diritti di Milano all’evento di apertura dell’ormai annuale appuntamento con l’LGBT+ History Month Italia. Con me al tavolo c’erano Alice Redaelli e Ale Santambrogio, e tante altre persone presenti, tra cui anche Chiara Beccalossi ed Elisa Belotti per l’organizzazione e la moderazione. Mi capita spesso in questo periodo, andando in giro per incontri, di riconoscere nelle nostre osservazioni e nelle nostre riflessioni una rinnovata mobilitazione ma anche una profonda stanchezza. Lo diceva bene Ale. C’è una stanchezza che abita questi tempi bui, ed è una stanchezza che ha bisogno di essere detta, non silenziata.

Questo vorrei fare in questo breve spazio: dire questa stanchezza e darle una voce, in maniera forse meno accademica del solito, meno analitica. Darle un nome che sia anche eco, che parli di noi e delle nostre paure, e di questo tempo terrificante in cui ci tocca vivere.

C’è una stanchezza nel sentirsi l’odio addosso. C’è un logoramento che viene dalle raffiche quotidiane di proposte di legge, circolari, decreti ministeriali, discorsi che negano, discreditano, delegittimano, puntano il dito, accusano, distruggono, spaventano, minacciano e intimidiscono. 

C’è una stanchezza nell’essere quotidianamente nella bocca e nei post del deputato della Lega o del senatore di Fratelli d’Italia, di una ministra o di un governo intero, e pure della sedicente femminista-radicale-gender-critica, del neocattolico di turno e di intere organizzazioni nate per perseguire un solo e unico scopo: liquidare la realtà LGBTQIA+ dallo spazio pubblico, dalle scuole, dalle università, dagli uffici e dalle strade, dalle menti e dalla storia – dappertutto.

C’è una stanchezza nell’essere bersaglio di una campagna ideologica permanente, quella che ti chiama “ideologia gender” perché il tuo nome non importa, perché il tuo pensiero è pericoloso, perché la tua vita è sbagliata. Un’ideologia che chiama “gender” le persone LGBTQIA+, che chiama così tutte le esistenze che non sono quelle della differenza sessuale naturalizzata e della famiglia dottrinale

Ancora molte persone, tra chi commenta e chi scrive, chi siede in tv e chi del chiacchierare ha fatto una professione, pensano che “il gender” sia una polemica di nicchia. Le campagne anti-gender sono molto di più di una polemica che poco importa. E la crociata anti-gender ormai non è più una, ma è moltiplicata tra quella a matrice neocattolica, quella dei partiti dell’ultradestra e quella del terfismo militante. È una campagna continua che avanza tirando al bersaglio con armi più o meno sofisticate, più o meno finanziate, più o meno consapevoli, ma avanza inesorabilmente a caccia di leggi, divieti, prede e capri espiatori. Ma non prede qualunque, quelle più deboli anzitutto, quelle già fragilizzate dalla precarietà e dalla violenza sociale, quelle più facili da mettere fuori uso perché logorate dal peso delle disuguaglianze e della discriminazione.

La stanchezza che sentiamo nel vivere addosso questo antilgbtqismo, questa nuova forma di omolesbobitransintersexfobia organizzata in mobilitazioni di piazza, discorsi social-mediatici, interrogazioni parlamentari, circolari ministeriali e linee-guida istituzionali, non è una vera e propria stanchezza, ma il livido scuro di una forma sistematica, permanente e quotidiana di violenza simbolica, che poi è quella che nelle strade e nelle case diventa anche violenza fisica, che carica le parole per colpire più duro. Ed è così che lo spazio pubblico e ancora le scuole, le università, le famiglie, i consultori, i luoghi di lavoro, le istituzioni, il tempo stesso, il presente diventano così, a poco a poco, sempre più stretti, sempre più bui. 

C’è una stanchezza che è anche la paura che da questo piano inclinato non si torni più indietro e che quel buio domani sia ancora lì, e che i Trump di domani siano peggio di quelli di oggi. Perché i discorsi anti-gender, anti-LGBT, anti-trans questo cercano e generano: odio e paura. 

Il continuo slittamento ideologico e linguistico che producono le manipolazioni discorsive, le fake news e le strategie comunicative ha finito per portare dentro lo spazio pubblico espressioni come: “la rivoluzione del buon senso”, “lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina, all’ideologia woke e alle follie del politicamente corretto”, “basta con il gender”, “solo due sessi, maschio e femmina”, “liberare anche l’Europa dalla follia woke”, “che il ritorno di Trump infonda coraggio al Governo italiano: subito più politiche per la vita e contro il gender nelle scuole”, “l’estremismo dell’ideologia gender”, “la verità biologica”, “le bambine sono femmine i bambini sono maschi”, “i bambini trans non esistono”, “le donne trans sono uomini”, “sì alla famiglia naturale, no alle lobby LGBT”. Queste parole non sono incidenti linguistici, ma armi di distruzione culturale.  

C’è una stanchezza profonda che è il riflesso dell’incapacità delle istituzioni, dei parlamenti e dei governi di questo paese nel proteggere le persone, le esistenze, le identità, i corpi, le storie, le comunità e le battaglie LGBTQIA+. 

C’è una stanchezza nell’aria, ma non è una resa. C’è una stanchezza nei nostri spazi e nei nostri discorsi, nei nostri sguardi, ed è una stanchezza condivisa, una stanchezza comunitaria. E prendersi il tempo di sentire quella stanchezza e di condividerla è già prendersi cura, è già resistenza. C’è una stanchezza a sentirsi l’odio addosso, ma quell’odio non è il nostro, perché le nostre storie e le nostre comunità non nascono dall’odio, ma dall’orgoglio. 

E l’orgoglio è la nostra cura.

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