C’è una frase che mi torna spesso in testa: “Lo sport unisce”; la scrivono sulle pubblicità delle Olimpiadi, nei post delle palestre sui social, nei volantini dei tornei scolastici, eppure, per molte persone trans*, lo sport non unisce affatto. Anzi: esclude, discrimina, mette a disagio. Anche nei contesti che si definiscono inclusivi, come palestre popolari o gruppi sportivi dichiaratamente queer, succede che l’inclusione sia solo a parole: ti dicono che sei lə benvenutə, che «qui non giudichiamo nessunə», ma poi nei fatti vieni lasciatə solə; nessunə parla con te se succede qualcosa, e nessunə ti chiede cosa ti farebbe sentire al sicuro. Eppure il mondo dello sport può essere fonte di numerosi disagi per le persone trans e non binarie, dall’esistenza di camerini rigidamente divisi per genere all’obbligo di usarne uno non in linea con il proprio genere di appartenenza, dalla poca conoscenza da parte di personal trainer e professionist* delle necessità di un individuo trans* alle domande inopportune che questa ignoranza può generare, da un disagio circostascritto allo sport a problemi diffusi anche fuori dalle palestre, come il misgendering e la discriminazione.

Nella mia esperienza, quando ho fatto notare che qualcosa non andava, sono presto diventatə quellə problematicə, quellə che ha sempre qualcosa da ridire. Non sono mai statə unə gran sportivə, ma oggi mi chiedo se la mia sia stata una scelta o una condizione imposta.

I luoghi dello sport, spesso intrisi di machismo e binarismo di genere, in più occasioni mi hanno fatto sentire a disagio, perché “non abbastanza uomo”, perché poco competitivo, o poco performativo. Immagino —  anzi ne sono certə — che esistano spazi compagni, realtà davvero accoglienti, ma non possiamo delegare sempre e solo a questi luoghi la missione di rendere un diritto accessibile per tuttə: quanti e quantə di noi, provenienti da piccole periferie, non hanno il privilegio o la possibilità di accedere a questi spazi?

Eppure la parola “inclusività” la si trova ormai ovunque, ma a forza di vederla ovunque, per me ha smesso di voler dire qualcosa. È diventata una parola vuota, un modo per sembrare progressistə senza cambiare davvero nulla.

Un cerotto colorato su una ferita aperta.

Credo che lo sport possa davvero essere un luogo di liberazione e di cambiamento, ma finchè resterà destinato solo a chi già corrisponde ad un certo modello di corpo, di genere e di prestazione, allora si continuerà a escludere, e l’inclusione, in questo ambito come in tantissimi altri, non può essere né uno slogan, né un’ etichetta, ma qualcosa da co-costruire attraverso la partecipazione e la cura reciproca.

Immagine in evidenza: pexels.com