Radicalismo e mistificazione
In un clima di falsificazione e appiattimento dell’informazione come quello odierno, in cui imperversano i sensazionalismi a discapito dei fatti, una delle realtà più inaridite dalla siccità di massa è senza dubbio l’Islam. Ciò che appare – e viene venduto – all’Occidente, è un monolitismo radicale generato dall’intrinseca violenza di una religione che, nella migliore delle ipotesi, è definita “arretrata”, in particolare per quanto concerne i diritti civili.
Gioco facile, per xenofobi di vecchia data, additare il burqa e il niqab, come anche il semplice velo, per sottolineare quanto di male venga fatto alle donne, ovviamente dall’alto di uno degli scranni più misogini di sempre (almeno finché non vedremo una papessa!). Lo stesso discorso viene solitamente applicato ai diritti LGBT+. Se, da un lato, è legittimo affermare che in larga parte degli stati che si professano musulmani sussistano violazioni dei diritti civili, dall’altro occorre fare un passo indietro. Scindendo innanzitutto, almeno per onestà intellettuale, quella che è una strumentalizzazione politica radicale dell’Islam – le cui origini sono principalmente socio-economiche – dal Corano propriamente detto, e da coloro che si riconoscono nella sua pratica.
Un’operazione di questo tipo sarebbe il primo passo utile per restituire dignità a una moltitudine di persone che cercano di vivere la propria spiritualità senza dover inciampare nel giogo di una discriminazione scellerata. Questo è il cuore dell’iniziativa di Ludovic-Mohamed Zahed che, dopo un’adolescenza spesa in Algeria negli studi per diventare Imam, e nella conseguente repressione della propria omosessualità, ha deciso di proporre una lettura del Corano che permettesse di “trovare posto nell’Islam” a persone come lui, arrivando nel 2012 ad aprire, a Parigi, la prima moschea inclusiva d’Europa.
Non solo Mohamed ha iniziato a celebrare unioni tra persone dello stesso sesso, ma ha deciso di scardinare il monopolio del potere religioso offrendo una formazione come Imam a tutti i partecipanti alle funzioni. Sulla sua scia, e in forza di movimenti come quello reso celebre dopo la strage di Charlie Hebdo con lo slogan “not in my name”, in Europa ha iniziato a diffondersi, su più larga scala, uno spirito diverso di approccio alla Scrittura.
È nel 2017 che l’attivista islamica turca Seyran Ateş – dal 2009 sotto scorta per le minacce di morte subite da vari esponenti del mondo arabo – apre la moschea Ibn-Rushd-Goethe a Berlino. Cardine della sua lotta sono la condizione della donna e la ricerca assidua nella Scrittura delle fondamenta della sua spiritualità. “Non esistono basi teologiche, all’interno del Corano, che certifichino l’obbligo o la necessità del velo”, ed è pertanto necessario, continua, riappropriarsi di ciò che gli estremisti hanno rivendicato per motivi politici che esulano dal cuore dell’Islam.
Una lotta dall’interno, la sua, che mira a togliere terreno al radicalismo, a strappare dall’eco delle bombe la natura più autentica della sua fede. Se l’operato di Zahed, per sua stessa dichiarazione, ha attirato dissenso ma nessun tipo di violenza, quello di Ateş, invece, deve aver toccato corde più profonde. Ammettere le donne alla guida della preghiera è qualcosa che viola la Shari’a più di un rapporto anale tra due uomini, a quanto pare; tanto che il Cairo, sede di una delle maggiori scuole legali dell’Islam contemporaneo, ha pronunciato una Fatwa di morte nei confronti dell’attivista turca, definita da alcuni radicali una terrorista oltre che un’infedele.
Come lei, a Copenaghen, Sherin Khankan ha fondato una moschea del tutto al femminile, professando una lettura del Corano fondata interamente sull’uguaglianza di genere e sulla libertà di scelta individuale. Tutte queste realtà, per quanto numericamente in crescita, non sono ancora che primi, timidi germogli, utili a individuare all’interno di quel mare magnum che viene sbandierato dai mass media come “Islam”, l’infinità di sfumature che lo compongono.
pubblicato sul numero 39 della Falla – novembre 2018
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