Nel parlare di scienza e ricerca scientifica si parte sempre dal presupposto che queste, per loro natura, siano patrimonio dell’umanità, che debbano «essere oggettive e basate sui fatti» e senza nessun tipo di ostacolo causato dai preconcetti di chi le opera.

L’articolo di Giulia Battistelli ha già ampiamente sfatato questo mito per quanto riguarda la parità di genere all’interno del mondo della ricerca. Tuttavia, come si applica questo discorso a chi, in quel mondo, fa anche parte della comunità LGBTQIA+? Auspicabilmente, alla fine di questo articolo chiunque stia leggendo avrà una visione meno parziale di questo tema.

Partiamo dal presupposto che la Scienza, nella sua connotazione sociale, non è stata sempre una grande alleata della comunità LGBTQIA+. Ad esempio, l’omosessualità è stata rimossa dalla lista delle malattie mentali nel 1974, per essere sostituita dal “disagio causato dalla propria omosessualità” (detto ego-distonia dell’orientamento sessuale), a sua volta rimosso solo nel 2013. Il “disturbo dell’identità di genere” è stato considerato una malattia mentale fino al 2012 ed esistono ancora gruppi farneticanti di persone che usano la scienza – o quella da loro presunta come tale – come un’arma per attaccare la comunità LGBTQIA+.

Nel mondo della ricerca, iniziative di promozione di diversità e inclusione sono attualmente una rinnovata priorità di molte entità, sia pubbliche che private. Ma sebbene creare un mondo in cui ogni persona abbia le stesse possibilità di riuscire sia un obiettivo comune, la domanda sorge spontanea: se la scienza non deve essere avversa alla comunità LGBTQIA+, dove sono le persone queer che lavorano nella ricerca scientifica?

La realtà è che non si è ancora finito di combattere contro la convinzione che questi sforzi per raggiungere l’inclusione siano antitetici alla cultura della meritocrazia. “Capacità” e “merito” dovrebbero essere gli unici parametri per determinare il valore di una persona che lavora nella ricerca, la crème de la crème emergerà dalla massa, a prescindere dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale, per ottenere una carriera di successo, no?

Ecco, non proprio. Uno studio pubblicato nel 2018 da ScienceAdvances mostra come sia molto più probabile che chi studia nelle discipline scientifiche (le cosiddette STEM: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) lasci la sua carriera accademica se si identifica come parte della comunità LGBTQIA+. La probabilità di abbandono raddoppia se le persone queer affrontano un’esperienza diretta nel mondo della ricerca, come un tirocinio sperimentale/laboratoriale o un apprendistato.

Questo, in poche parole, significa che l’idea del successo basato sul merito è una violentissima bugia. Con buona pace di chi bercia che oramai non si possa più dire nulla, signora mia, con questa dittatura del politicamente corretto.
Tuttavia un lato positivo in parte c’è: la causa di questo problema è ben nota. I dati riportati in un altro articolo pubblicato su ScienceAdvances nel 2021 dimostrano che, su un campione di 25000 persone che lavorano nella ricerca, solo 1000 si identificano apertamente come membri della comunità LGBTQIA+, ossia il 4%. Di per sé, questo dato ci dimostra che le percentuali sono fuori scala, dato che, secondo molteplici sondaggi (come IPSOS o Gallup), la comunità LGBTQIA+ rappresenta dal 10% al 20% della popolazione, se non di più.

Questo vuol dire che, nella ricerca, le persone queer sono sottorappresentate e/o non fanno coming out. E perché dovrebbero? D’altronde lo stesso studio prima citato mostra che chi vive la sua identità in maniera aperta ha maggiore probabilità di subire esclusione sociale, minore accesso a risorse e a opportunità di carriera e, in generale, maggiore tendenza a soffrire di stress relativo al lavoro. Se manca rappresentazione, mancano modelli a cui fare riferimento, e il ciclo di abbandono continua.

Quindi il punto è che il sistema è corrotto, il mondo è brutto e cattivo e che non si possa fare nulla? Assolutamente no! Che il problema sia così ben delineato è, in realtà, una cosa potenzialmente positiva. Conoscere la causa di un problema permette di agire in maniera mirata e puntuale per cercare di risolverlo, e molti centri di ricerca e università sono attualmente attivi a questo proposito, come afferma un articolo di Sage Journals del 2020. Fondamentale però è che queste azioni non siano solo un modo per affrontare il problema nella sua facciata, in maniera superficiale, ma un inizio per cambiare le cose in maniera strutturale. Altrimenti, questa consapevolezza del problema rimarrà solo una teoria.

A tal proposito, è importante ricordare che le persone parte della comunità LGBTQIA+ sono ancora fortemente discriminate in decine di Paesi nel mondo e, anche dove la loro esistenza non è considerata di per sé un reato, sono ancora lungi dall’ottenere una posizione egualitaria nella società.

Per questo motivo, oggi più che mai dobbiamo combattere per far sì che figure storiche che rappresentano il ruolo centrale che la comunità LGBTQIA+ ha nella scienza vengano celebrate in quanto tali e che questa celebrazione e promozione di diversità e inclusione diventi strutturale nella nostra società. Un esempio ottimo di tale rappresentazione è il sito 500 Queer Scientists. In più, che le strategie attive di inclusione vengano implementate in maniera strutturale negli enti che si occupano di ricerca e trasmissione della conoscenza.

Alla faccia di chi ha tanto a cuore la menzogna del merito.