in collaborazione con Lesbiche Bologna
«Ti va di scrivere qualcosa sull’esperienza di Some Prefer Cake?»
«Sì, ci provo».
Se il personale è politico, allora ha senso aprire la borsa delle emozioni e guardarci dentro.
Per il suo tredicesimo anno, il festival è tornato quest’anno dopo l’edizione interamente online del 2020. Da venerdì 24 a domenica 26 settembre, una folla di lesbiche, bisessuali, trans, frocie, persone non-binarie, soggettività compagne, hanno occupato e vissuto lo spazio del Cinema Nosadella e del Giardino P. Lorusso poco distanti dal centro di Bologna.
25 film da tutto il mondo tra lungometraggi e corti, narrativi e documentari, 2 presentazioni di libri e 3 dj set, per raccontare storie di vita, vite ribelli, anticonformiste, di lotta, d’amore e di emancipazione.
Per me, è stata la prima vera edizione: la seconda come spettatrice, la prima come parte dello staff. Vengo da una cittadina piemontese di provincia, sono arrivata a Bologna da quasi due anni per lavoro. Non sono cresciuta tra i colori e le sfumature, ma tra tavolozze più scarne e grigie, con cui si fatica a riconoscersi e ad affermare la propria identità queer. Quando vedo le sfumature colorate, mi emoziono sempre ancora.
Nella borsa delle emozioni, se ci guardo ci vedo ebbrezza. È l’ebbrezza dell’aver visto raccogliersi un pubblico dalle province alle città di tutta Italia. È l’ebbrezza di aver visto volti e corpi – diversissimi tra loro – incontrarsi, interagire, ascoltarsi, raccontare e raccontarsi. Anche lo staff racchiudeva un insieme di generazioni, di soggettività tra le più diverse, alcune delle quali si ritrovano di anno in anno in onore del festival. È l’ebbrezza della gioia lesbica, del trovarsi e riconoscersi. Some Prefer Cake si vuole definire ed è, a tutti gli effetti, un «festival di comunità». È l’occasione, infatti, per incontrarsi e confrontarsi, creando insieme e collettivamente uno spazio di autorappresentazione. La comunità lesbica e LGBTQI+ esiste – e resiste – sgomitando. Si è creata uno spazio di (re)esistenza grazie a persone coraggiose come quelle raccontate dai film proposti, e grazie a persone come Luki Massa, una delle ideatrici del festival. Come raccontano le sue compagne, Luki l’ha immaginato per sé, per noi, perché ci piaceva. Le fondatrici hanno voluto uno spazio e hanno osato, se lo sono costruito, per popolarlo poi tutte insieme.
Così i suoni, le immagini e le parole di questi tre giorni, sono strumenti per sperimentare: per sperimentare identità e relazioni, per sperimentarsi fuori dagli schemi imposti, per crearne di nostri, fantasiosi, creativi, divergenti, al limite.
Il potere di usare parole nostre è quello dell’autonarrazione e dell’autorappresentazione: permette di riconoscersi ed esprimersi in libertà.
Per usare un linguaggio recente e attuale, è un festival di congiunte, ma non tradizionali. In un contesto nazionale – soprattutto nelle province – che vede un aumento di violenza omolesbobitransfobica, razzista e machista, il festival si colloca come spazio di visibilità e resistenza. Inoltre, dopo la pandemia di covid-19, il contesto nazionale registra un impoverimento degli spazi di socialità e cultura lesbici, spazi fondamentali all’interno di una comunità e per la trasmissione del senso di sé e della memoria collettiva. Quindi, attraverso il potere del cinema e della cultura, SPC crea uno spazio-tempo politico transfemminista, in cui immergersi lontane dallo sguardo machista, patriarcale ed eteronormato, e confondersi nella creazione di un’identità collettiva altra.
Per usare le parole di Monique Wittig, della cui opera letteraria abbiamo discusso insieme a Eva Feole, autrice di Corpo a corpo con il linguaggio. Il pensiero e l’opera letteraria di Monique Wittig, Some Prefer Cake è stato un incontro di «schiave in fuga», di persone che vogliono raccontarsi ed essere ascoltate fuori dal canone binario, in generi altri.
Immagine in evidenza da openddb.it
Immagine 1 e 2 da someprefercakefestival.com
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