Come il linguaggio trasforma la realtà
Bologna, marzo 2013. Appena arrivata alla Scuola di giornalismo, mi rendo conto che gli insegnanti, tutti valenti professionisti bianchi, occidentali, e piuttosto agée, non sono affatto interessati a uscire dagli stereotipi razzisti che costituiscono le regole del giornalismo classico (nonostante le mille carte deontologiche), né a usare quello che oggi chiamiamo comunemente linguaggio di genere.
Se il criminale è un migrante, ne specifichi la nazionalità o la razza, se è italiano no. Al mio suggerimento di descrivere allora la razza di tutti, ad esempio definendo i bianchi “caucasici”, mi guardano come se io fossi matta, o un’inguaribile idealista – caratteristica profondamente negativa, l’idealismo non vende. Le cinque S del giornalismo italiano d’altronde sono Sesso, Soldi, Sangue, Sport, Salute – sic.
Sugli esteri: “Se in un Paese del terzo mondo ci sono 100 o 200 morti, non frega un cazzo a nessuno. Devono essere almeno mille perché diventi una notizia interessante”. Detto anche senza cattiveria, ma come un dato di fatto immutabile. Che, peraltro, corrisponde ancora oggi a verità, almeno sulle testate mainstream.
In un contesto simile è abbastanza ovvio che, quando ho avanzato la proposta di declinare al femminile alcune parole tradizionalmente usate solo al maschile, soprattutto quelle inerenti professioni o incarichi di prestigio come avvocata, ingegnera, sindaca, ministra, mi abbiano non dico riso in faccia ma fatto capire che sono brutte, cacofoniche, che i lettori non vogliono leggerle, e che io sono una scassapalle troppo ideologizzata (anche se in alcuni momenti simpatica proprio per questo). Alla mia ostinazione – l’hanno avuta vinta su “caucasico”, non accadrà anche con il linguaggio di genere – si rassegnano dicendomi: “Fai come vuoi, ma se scrivessi sul mio giornale te lo impedirei”. Aggiungendo, come a discolparsi: “Sono le regole della redazione, non il mio gusto personale”. Di certo non insegnano alla classe a declinare al femminile le parole che lo richiedano.
Questo nel luogo accademicamente deputato alla trasmissione della professione di giornalista. Questo non negli anni ’50, ma quattro anni fa. Da allora, queste parole sono diventate linguaggio comune nei media, usate correntemente se non da tutte, da molte testate. Il dibattito sulla loro correttezza e opportunità è, però, tutt’altro che terminato. È evidente che le resistenze ad adattare il linguaggio all’evoluzione del ruolo della donna nella società sono ancora molte, sia nella comunicazione istituzionale che in quella quotidiana. Altrimenti, non si spiegherebbero l’accettazione diffusa dei nomi femminili per professioni tradizionalmente donnesche come maestra, infermiera, segretaria, e il rifiuto stizzito che incontrano architetta, chirurga, etc.
Anche se è assurta a una certa notorietà solo negli ultimi anni, la questione è annosa: la prima pubblicazione a occuparsene furono le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, pubblicate dallo Stato stesso nel 1986, durante il governo Craxi. Come spesso accade sui temi di rilevanza sociale, anche questo era un’importazione dal mondo anglosassone, che pure ha una lingua, l’inglese, meno ostinatamente sessuata della nostra, e quindi un po’ più semplice da gestire in questo senso.
L’Accademia della Crusca, uno dei maggiori punti di riferimento, in Italia e all’estero, per lo studio e la ricerca sulla lingua italiana, si occupa di questo tema da anni, e si è espressa in più occasioni sulla correttezza grammaticale e quindi sulla legittimità linguistica dei termini professionali declinati al femminile. Cecilia Robustelli, collaboratrice da anni dell’Accademia, conduce una campagna “per la modernizzazione dei nomi di professione femminili”, e ha pubblicato diversi testi sull’argomento.
Il presidente dell’Accademia, Claudio Marazzini, sostiene che: “Non si può dare torto a coloro che vedono una sopravvalutazione ideologica nella questione del linguaggio di genere, così come è stata posta fino a oggi”, visto che la discriminazione e l’offesa nei confronti della donna spesso non stanno nell’uso del maschile, “ma in altre aggiunte linguistiche che si possono introdurre, come se si dicesse ‘i calzoni attillati del ministro’, e naturalmente in questo caso sarà un ministro donna”. Ma aggiunge: “La furia di chi ora avvia sgarbatamente la battaglia contro queste donne (che si battono per l’innovazione, n.d.A.) fa pensare che in fondo esse abbiano più ragione di quanto potesse sembrare”.
La lingua è un’entità in continua evoluzione, insieme ai contesti sociali che la utilizzano per comunicare. Li rispecchia, e quindi, in seguito a una serie di diritti conquistati dalle donne e alla progressiva evoluzione del loro status, viene anch’essa investita dal cambiamento. Sembra che molti uomini non siano disposti a perdere i loro privilegi tradizionali nemmeno dal punto di vista linguistico e che non vogliano rinunciare al maschile universale, consciamente o meno.
È evidente come sia l’uso a creare le norme linguistiche, e non viceversa, quindi solo fra una cinquantina d’anni sapremo se i nuovi termini avranno attecchito stabilmente. Nel frattempo, perché ciò avvenga, solo una cosa possiamo fare: usarli.
pubblicato sul numero 31 della Falla – gennaio 2018
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