INTERVISTA A SIDDARTH DUBE

di Francesco Colombrita

Povertà, salute pubblica e sviluppo sono le principali aree dell’interesse attivistico di Siddarth Dube che, già membro di numerose commissioni internazionali di ricerca e impegno sociale (UNICEF, UNAIDS, Joint United Nation Program on HIV/AIDS) è ora consigliere anziano presso il World Policy Institute di New York, oltre a scrivere per numerose testate giornalistiche. In occasione dell’annuncio dell’uscita negli Stati Uniti del suo nuovo libro, un’opera dai tratti personali ma profondamente alimentata dalla storia sociale e politica dell’India degli ultimi decenni, Dube si è reso disponibile per un’intervista che rivela aspetti interessanti di una realtà non vicinissima alla nostra.

Il tuo libro No one else, già edito in India, verrà presto pubblicato anche in America, di che si tratta?

Sì, il mio libro uscirà verso la fine del 2017 in una veste internazionale della Atria Books, con il titolo An indefinite sentence. Il libro è in buona parte una mia memoir, riguardante come sia stato crescere da uomo gay privilegiato, per status, nell’India degli anni ’60. In tutta coscienza è però qualcosa di più, perché questo lavoro, che attraversa tutto l’arco della mia vita, corre sul binario del problema della giustizia sociale e diviene quindi una vera e propria storia del sesso e dell’amore fuori legge in India. È incentrato sui lavoratori del sesso, sia uomini che donne omosessuali, e su come le loro comuni problematiche si stiano rivelando all’attenzione pubblica a causa dell’epidemia di AIDS. Da qui il sottotitolo: A personal history of outlawed love and sex.

Per quale motivo hai sentito il bisogno di scrivere quest’opera?

Ho iniziato questo libro sulla soglia dei 50, un’età in cui molti di noi sentono il bisogno di dare un significato alla propria vita. Quando ho iniziato a scriverlo, tuttavia, mi sono reso conto che non riguardava solo me come individuo, ma tutto quel taciuto universo di ingiustizia sociale e il fondamentale bisogno dell’uomo di giustizia e diritti. In particolare, la sconvolgente battaglia dei lavoratori del sesso non è abbastanza conosciuta. L’origine della loro lotta risale all’indipendenza dell’India (1947, ndr), ma si è intensificata in risposta alla devastazione portata dall’AIDS a partire da metà negli anni ’80. È stato profondamente d’ispirazione, ma altrettanto deprimente, documentare questa storia negli ultimi decenni. D’ispirazione perché ho potuto assistere ad alcuni dei più importanti movimenti emancipatori che queste persone hanno realizzato, come nei celebri casi del collettivo DMSC di Calcutta e del VAMP di Sangli (collettivi politicamente impegnati, a partire dagli anni ’90, per il riconoscimento di vari diritti tra cui la legalizzazione e la tutela della prostituzione, ndr). Le trasformazioni realizzate da questi movimenti, per quanto riguarda la percezione sociale, che hanno permesso a persone considerate fuori casta di affacciarsi alla vita politica lottando per i propri diritti sono una meravigliosa espressione della democrazia indiana. Dall’altro lato tuttavia, sono stato profondamente scosso dalla consapevolezza che tutte queste lotte e sacrifici sono stati in parte ignorati dalla nostra classe dirigente, che non ha decriminalizzato i lavoratori del sesso e soprattutto non li protegge dalla brutalità della polizia e delle corti.

Come viene percepita l’omosessualità in India?

Non ci sono dubbi sul fatto che, storicamente e tradizionalmente, ci fosse un altissimo grado di accettazione delle persone attratte dallo stesso sesso. Rispetto al mondo cristiano, a partire dalla tarda età imperiale, non ci sono mai state in India persecuzioni o repressioni violente. La dominazione coloniale britannica ha cambiato, però, tutto questo in peggio con la grave criminalizzazione dell’omosessualità maschile a partire dal 1860. Ovviamente, oltre un secolo di questa situazione ha incrinato la percezione delle attrazioni omoerotiche negli indiani. Oggi il panorama è misto, anche se si è molto lontani dai livelli di integrazione dell’Occidente, proprio a causa dell’eredità morale britannica che è stata accolta da una buona fetta di Indiani integralisti che la propugnano anche se non ha nulla a che fare con la loro storia.

Nel tuo libro Sex, lies and AIDS e in diversi articoli hai parlato del problema dell’AIDS in India. Quanto è grave la situazione?

Per molti anni c’è stata una forte preoccupazione che l’AIDS potesse raggiungere proporzioni gravi in India, similmente ai paesi africani più colpiti. Per fortuna non è successo. Questa percezione catastrofica si è attenuata a partire da una decina di anni fa, nel 2007 in particolare. Non è moltissimo quello che ha fatto il governo per prevenire l’epidemia ma almeno è stato mosso qualche passo – in India la politica è da sempre in ritardo sulle questioni sanitarie. Tuttavia, ormai sembra chiaro che la situazione sia lontana dal raggiungere proporzioni altissime, anche se ancora molto deve essere fatto. Per metterla in prospettiva, al momento, la media di adulti che hanno contratto il virus dell’HIV non è molto più alta di quella europea e del Nord America.

pubblicato sul numero 21 della Falla – gennaio 2017