Il ruolo tradizionale della donna nella società pre-indoeuropea secondo Marija Gimbutas

Ultimamente, nel dibattito pubblico e politico, si è tornati a parlare del cosiddetto ruolo  tradizionale della donna, ma che cos’è la tradizione? Un insieme di credenze e pratiche condivise da un gruppo di persone che ne trasmettono la memoria di generazione in generazione. Per quanto ci si ostini a pensare il contrario, le tradizioni non sono consuetudini cristallizzate, ma cambiano a seconda dell’evoluzione o dell’involuzione di una civiltà.

Nel saggio dell’archeologa statunitense di origini lituane Marija Gimbutas, Le Dee viventi, uscito negli Stati Uniti nel 1999 e edito in Italia da Edizioni Medusa, vengono analizzate le tradizioni europee antecedenti al 4000 a.C. Attraverso l’analisi di reperti archeologici, Gimbutas ricostruisce la struttura, il linguaggio e la religione delle società pre-indoeuropee. Secondo l’interpretazione della studiosa, esse erano organizzate intorno a una comunità pacifica e democratica, che venerava la dea ed era guidata da una sacerdotessa e da un concilio di donne che si occupava del governo della comunità.

In tutta l’Europa antica non c’è prova del modello indoeuropeo di predominio patriarcale. La religione tradizionale era basata sul culto della dea, divinità una e trina, che rappresentava il ciclo della vita fondato su tre tappe: nascita, crescita e rigenerazione. Rigenerazione, non morte: la donna era l’incarnazione della natura stessa, per cui se la natura si rigenera, la morte non è che un momento di passaggio prima di tornare alla vita. Esempi della fioritura di queste culture sono riscontrabili non solo nei reperti rinvenuti in Europa, in Anatolia e nelle Cicladi, ma anche nelle mitologie etrusca, basca, celtica, germanica e baltica, oltre che in quelle minoica e greca.

Le civiltà pre-indoeuropee furono sottomesse con grande ferocia da un popolo di guerrieri, i Kurgan, comunemente detti indoeuropei, evento di cui sarebbero prova gli stupri divini così frequenti nella mitologia greca: Poseidone violenta Demetra, antica dea madre della civiltà matriarcale; Ade stupra Persefone; Apollo cerca di violare Dafne, e così via.

Gimbutas ipotizza che questi stupri rispecchino le brutalità riservate alle donne durante la transizione al patriarcato: il primo atto è lo stupro, seguito dalla proibizione della parola, del logos. Durante il matriarcato, alle sacerdotesse era riconosciuto il potere della parola, che esercitavano attraverso la poesia e la profezia. Dopo la violenta transizione al patriarcato, tale potere diviene prerogativa di un dio maschile e violento, Apollo, che, infatti, assoggetta le figure della Pizia, delle Muse e punisce Cassandra che non vuole sottomettersi.

La patriarcalizzazione è incarnata da due figure potenti e antitetiche: Cassandra che dice la verità, ma a cui nessuno crede perché donna, e Odisseo, il bugiardo, che gode di credibilità perché uomo. Dunque, le tracce del violento passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale sono evidenti all’interno della mitologia greca.

In seguito, per estinguere le antiche religioni fondate sulla fertilità, che continuavano a resistere nei riti e nelle credenze soprattutto legate alla terra, le tre religioni monoteiste, le cui divinità sono solo maschili, hanno rimosso la sessualità dal sacro, trasformandola in tabù e ricoprendola di disprezzo. Una volta compiuto questo passaggio, occorreva collocare nella società l’oggetto donna, darle un ruolo: il ruolo tradizionale di oggetto inanimato nelle mani del patriarcato.

pubblicato sul numero 45 della Falla, maggio 2019