LA SCHIAVITÙ SESSUALE DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE IN ASIA
Ci sono storie inenarrabili, che vorremmo fossero solo frutto di un’immaginazione perversa. Invece, il fenomeno storico delle “comfort women“ è tra le storie più atroci che si possano raccontare. “Comfort women” è l’eufemismo, tradotto dal giapponese, con cui si fa riferimento alle schiave sessuali, donne costrette a prostituirsi nei bordelli militari giapponesi prima e durante la seconda guerra mondiale, in concomitanza con l’occupazione giapponese. Si stima che solo durante il conflitto, più di 200.000 donne e bambine furono vittime di questo sfruttamento, provenienti in particolare da Sudest asiatico, Cina e Corea. Le donne venivano reclutate principalmente attraverso l’inganno, con la prospettiva di lavori ben pagati, o con il prelevamento forzato. Rinchiuse in bordelli-lager, vivevano in coercizione e condizioni di miseria e fame, senza nessun diritto o retribuzione. Avevano solo il dovere di soddisfare i bisogni di guerra, cioè di subire le violenze sessuali dei soldati. Costrette in spazi angusti senza il rispetto di elementari norme igieniche o privacy, ci si aspettava che servissero fino ai 70 uomini al giorno, anche durante il ciclo mestruale. Ricevevano visite mediche solo per scongiurare la trasmissione di malattie veneree all’esercito e, nel caso fossero infette, venivano fatte sparire. Qualsiasi altro problema medico o ferita provocata dalle violenze inflitte non erano curati. Queste condizioni, unite all’evidente danno psicologico e alla vergogna provata, spinsero tantissime donne al suicidio e a tentativi di fuga che avevano come conseguenza la condanna a morte.
Le testimonianze orali delle sopravvissute costituiscono la base delle fonti rimaste e solamente negli ultimi anni sono stati ritrovati documenti scritti che dimostrano la sistematicità del fenomeno. Nonostante le atrocità fossero note sin dall’inizio del conflitto, le fotografie mostrano come la propaganda giapponese, in occasione di feste o eventi ufficiali, facesse in modo che i gruppi di “comfort women” apparissero come compagnie di infermiere e inservienti che alleviavano le fatiche degli uomini al fronte. Ci sono state molte controversie a partire dagli anni ‘50 tra il Giappone e gli stati di cui queste donne erano cittadine, a iniziare dalla Corea del Sud, riguardo alle richieste di scuse pubbliche e all’indennizzo per i danni subiti. Tuttavia, a oggi, il Giappone non ha ancora pienamente riconosciuto o accettato questa responsabilità, avanzando soltanto delle blande scuse e compensazioni economiche verso le sopravvissute, mettendo in discussione o negando i fatti e declinando ogni responsabilità, anche con contraddizioni evidenti. Per chi ha perpetrato questi crimini non c’è stata alcuna indagine o condanna. In realtà, sia il Giappone sia gli stati coinvolti hanno usato il tema dei risarcimenti alle “comfort women” come pretesto per guadagnare consenso, più che mossi da una sincera volontà di riparazione verso le immense sofferenze di queste donne. Le storie di queste donne parla di guerra, colonialismo, violenza, perdita della dignità, sfruttamento sessuale e dell’oblio in cui si vorrebbero far sprofondare i fatti storici. Il tempo passa, le superstiti muoiono, la memoria deve rimanere. Se e quando i Paesi coinvolti troveranno una risoluzione, se e quando il Giappone si assumerà una piena responsabilità etica e legale, allora saremo libere di lasciare questa storia nel passato, allora si potrà lasciare questa storia nel passato, dove dovrebbe appartenere per il resto della storia dell’umanità.
Pubblicato sul numero 59 della Falla, Novembre 2020
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