Maggio è il mese dei fiori, della mamma e, per l’attivismo LGBT+ e queer belgradese, del “Pride o sprangate?”. Nel 2001, nell’indifferenza delle forze dell’ordine, la prima sfilata dell’orgoglio LGBT+ e queer belgradese fu infatti repressa con violenza da estremisti religiosi e nazionalisti, guadagnandosi così l’ironico soprannome di “parata del massacro”.
Ci riprovano con un festival, nel maggio 2005, sette ragazze e un ragazzo: il collettivo Queer Beograd, che si definisce radicale, internazionale e intersezionale. Sui volantini si legge che il festival si terrà a “Beograd, Queeroslavija”. Una Jugoslavia queer in un edificio abbandonato della capitale serba. E non è un vezzo, dato che il nazionalismo è legato a doppio filo con l’eteronormatività: chi non aspira a essere un soldato modello o una madre devota è fuori dai confini ideali della nazione. “Negli anni novanta, ad esempio, essere gay significava essere spazzatura, un traditore della patria”, ricorda Boban.
“La Serbia è per i serbi, non per i gay”. Questo gridavano gli estremisti nel 2001, racconta Ksenija. “Andate in Croazia! Poi sono andata al Pride in Croazia e ci gridavano: andate in Serbia!”. Qualche mese più tardi, al secondo festival tenutosi a dicembre 2005, Maja mi dirà: “Io non ho un’identità nazionale. Non sono slovena, sono di Lubiana”.
La Queeroslavija è quindi un’invenzione allo stesso tempo nostalgica e utopistica: fantasticando di uno spazio comune libero da nazionalismi (come la Jugoslavia aspirava a essere) e aperto alle diversità, rappresenta un Paese che non esiste più e non esiste ancora, dove ogni soggetto può trovare piena cittadinanza anche se “eccentrico”, “queer”. Ma se queer è un’invenzione anglosassone, si sono chiesti spesso attiviste e attivisti, che cosa vuol dire “queer” in Serbia? Il collettivo va alla ricerca di una traduzione, a livello linguistico e politico, e la presenta nel manifesto del terzo festival (ottobre 2006):
“In serbo non c’è una parola che significa queer, che possa spiegare perché diciamo queer e intendiamo qualcosa che va oltre la non-discriminazione per le persone LGBT+. Queer per noi è un termine radicale, inclusivo e creativo che accomuna tutte le forme politiche di lotta contro l’oppressione. Per questo il nostro nuovo festival si chiama Kvar, un termine tecnico che indica il malfunzionamento di una macchina, perché in questo mondo di capitalismo, nazionalismo, razzismo, militarismo, sessismo e omofobia noi ci vogliamo celebrare come una – [rullo di tamburi] – falla negli ingranaggi”. Vi ricorda qualcosa? La parola scelta per tradurre “queer” in serbo è “falla”!
Altro che “essere come tutti gli altri”: dall’Italia ai Balcani, “falla” significa rivendicare la diversità come valore e contestare la stessa legittimità delle norme e dei rapporti di potere sociali ed economici, configurando un’alleanza fra soggettività marginalizzate dai modelli sociali dominanti, non solo sulla base del genere o dell’orientamento sessuale, ma anche in termini etnici, religiosi, politici o di classe. Non a caso sulla Falla si scrive e si legge anche di povertà, migrazioni, giustizia sociale.
Così come queer è un termine dispregiativo riappropriato in chiave di emancipazione, la traduzione serba è un’operazione sovversiva che trasforma la marginalità in valore: se la macchina della normatività è profondamente ingiusta e discriminante, una f/Falla non può che essere una buona notizia!
pubblicato sul numero 15 della Falla – maggio 2016
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