In Italia ancora oggi non è previsto, nel percorso accademico di formazione delle professionalità legate alla salute mentale, un approfondimento di studio espressamente dedicato alle caratteristiche della popolazione LGBTI+. Le competenze in questo ambito vengono solitamente acquisite da chi svolge la professione di psicologa o psicoterapeuta sulla base di interessi personali, nella pratica del lavoro o grazie a iniziative autonome di docenti durante il percorso formativo. Una simile lacuna espone le persone LGBTI+ al rischio di incorrere in professioniste non preparate. Ciò rappresenta un disincentivo all’attivazione di percorsi di terapia che può causare un aggravamento delle problematiche connesse.
L’indagine In buone mani, promossa dal Cassero LGBTI+ center di Bologna, nasce proprio dalla consapevolezza che la popolazione LGBTI+ sia portatrice di bisogni specifici e che questo possa comportare, nell’accesso a percorsi di psicoterapia, pregiudizi, disinformazione e mancanza di competenze da parte delle professionalità coinvolte. Per provare a fornire una risposta a questo tipo d’istanza, il Cassero intende promuovere – a partire dal territorio di Bologna – una rete di professioniste che siano formate e aggiornate sulle tematiche dell’identità sessuale e sulle vite di persone con soggettività non conformi al modello eteronomativo. A tal fine abbiamo avviato una vera e propria mappatura, di cui l’indagine In buone mani rappresenta solamente il primo passo.
Il questionario In buone mani si compone di 19 quesiti. Una prima parte di profilazione ha previsto 3 quesiti volti a determinare età, provenienza geografica e identità sessuale della persona intervistata. Centrale e indispensabile per la mappatura era indicare il nome e il cognome della professionista da cui si è state in cura. Poi 15 quesiti a risposta chiusa – su scala likert a 5 livelli d’accordo da «Per niente d’accordo» a «Completamente d’accordo» – e una sezione finale a campo libero in cui si invitavano le rispondenti a condividere un racconto della loro esperienza.
Il sondaggio è stato diffuso online con un metodo di campionamento non probabilistico a valanga. Il campione risultante non è da considerarsi statisticamente rappresentativo, ma ha comunque una dimensione sufficientemente grande da consentire considerazioni e riflessioni basate su evidenze empiriche. Hanno infatti risposto 195 persone con un’età media di 32 anni, con età minima di 15 anni e quella massima 62 anni.
Per quanto riguarda la provenienza geografica, 107 persone dichiarano di vivere a Bologna (il 54,9% del totale) mentre 38 risposte provengono dal resto dell’Emilia-Romagna (19,4%). Le restanti risposte si distribuiscono in tutto il territorio italiano.
La parte del questionario legata all’identità delle intervistate consente di scegliere tra una serie di parole messe a disposizione. Ne risulta un campione abbastanza variegato (come rappresentato dal grafico a barre in Figura 1). Il 14% delle persone intervistate si identifica come omosessuale – a prescindere dal genere -, l’11% come lesbica e il 7% come bisessuale. Sull’identità di genere, il numero di persone che hanno scelto la parola donna o la parola uomo si equivalgono e ben 29 rispondenti si definiscono non binary. Solo 8 sono le risposte da parte di persone che si definiscono Trans* a fronte di 38 persone cisgender. Nel campione, assumono rilevanza numerica le persone che si definiscono queer (oltre il 9%).
Dalle risposte successive emerge un quadro abbastanza positivo sull’esperienza di terapia delle persone LGBTI+ ma che riporta alcune criticità specifiche ribadite nei racconti liberi della sezione finale in maniera sofferta. La Figura 2 illustra in dettaglio i risultati delle 15 domande a risposta chiusa, ne riporta il testo in forma sintetica e le percentuali di risposta nei 5 livelli d’accordo.
In generale sembrerebbe più semplice affrontare in terapia il tema dell’orientamento sessuale rispetto a quello dell’identità di genere, argomento che probabilmente durante la formazione delle professionalità coinvolte viene ancora meno trattato. Come emerge anche dalle seguenti risposte:
«Sono una persona trans non binaria e sto facendo fatica a farlo capire alla mia terapeuta».
«Fare coming out come bisessuale è stato molto facile ed è stato accettato senza alcuna domanda. Parlare della mia identità di genere è stato più complesso».
«Non ho mai incontrato vera e propria omofobia o transfobia, ma soprattutto del gran dare per scontato fossi etero e cis. Questo rende molto più difficile capire se è sicuro fare coming out. Non ho mai fatto coming out come genderfluid o poliamorosa o sugli spettri aro e ace e ho qualche dubbio che potrebbero non essere così accettati come l’essere “semplicemente” lesbica o bisessuale».
Se infatti la quasi totalità delle risposte indicano che la terapeuta ha creato un ambiente accogliente per permettere alle pazienti di poter parlare del proprio orientamento sessuale, la situazione cambia quando si tratta di identità di genere; le professioniste sembrano infatti avere maggiori difficoltà nell’esplorare questo aspetto identitario con la paziente senza darne per scontato il genere. Il dato sembra essere confermato dal fatto che le persone intervistate che si identificano come trans* hanno fornito le risposte più negative riguardo la loro esperienza in terapia. La Figura 3 riporta le risposte alle 15 domande a risposta chiusa per questo piccolo sottocampione: possiamo notare come i colori e le proporzioni delle barre di risposta differiscano sensibilmente rispetto alla Figura 2.
Un’altra domanda che sembra discostarsi dall’andamento generale – seppur in maniera meno marcata – è quella sulle relazioni non monogame che vengono spesso lette dalla terapeuta, impropriamente, come sintomi dell’incapacità di creare legami.
«La non monogamia è stata esplicitamente considerata dal mio psicoterapeuta una fase da superare per arrivare alla vera maturità relazionale; non ha neanche mai voluto esplorare realmente la mia visione, io stessa ho approfondito poco, perché percepivo troppo il suo giudizio. Penso che questo sia un caso di potenziale miglioramento grazie a una formazione specifica».
Un elemento interessante che emerge dalle risposte alla domanda aperta finale è la tolleranza delle rispondenti verso la scarsa competenza della terapeuta riguardo le tematiche legate alla popolazione LGBTI+, a condizione che questa però sia curiosa degli elementi portati in terapia e disponibile a mettere in discussione i propri pregiudizi.
«Era chiaro come non comprendesse appieno alcuni aspetti della mia vita e come alcune tematiche le fossero non del tutto affini. Ha cercato di capire con me, facendomi domande e dimostrandosi interessata».
«Non era propriamente formata nel campo delle tematiche LGBT. Ma mai c’è stato un comportamento non accogliente, alle volte è capitato che ammettesse la sua ignoranza rispetto i termini specifici che usavo e chiedeva».
«Ho spesso avuto l’impressione che l’esperienza con me come paziente per lei fosse nuova e avesse bisogno di mettere alla prova alcune proprie resistenze».
Seppur gli aspetti di non giudizio e accoglienza siano strumenti di lavoro fondamentali per le professionalità della salute mentale, una maggiore formazione eviterebbe alla pazienti di mettersi nella posizione di dover spiegare alcuni aspetti della propria identità con il rischio di inficiare pesantemente il percorso di terapia. Non tutte le persone che scelgono di andare in terapia hanno, né sono tenute ad avere, queste capacità.
«In un colloquio ha addirittura chiesto A ME se è vero, per la mia esperienza, “che nelle coppie di donne ce n’è sempre una che ricopre il ruolo maschile e una quello femminile”. Discorso molto stereotipato ed eteronormativo di per sé, ma soprattutto non credo sia appropriato che il terapeuta lo chieda alla cliente».
«Mi chiede ancora se “sono sicura” della relazione con la mia ragazza (che dura da 3 anni!). Penso creda, in linea con teorizzazioni obsolete, che la bisessualità sia una fase di passaggio».
«Una psicologa ha cercato di convincermi che fossi eterosessuale e che avevo fatto coming out con mia madre solo “per ferirla”».
Per questo motivo è importante comprendere la necessità di una maggiore conoscenza di dinamiche specifiche del vissuto di persone LGBTI+ soprattutto per chi sceglie di lavorare sul benessere mentale. Non è semplice affrontare la resistenza di molte professioniste che considerano sufficienti buone capacità relazionali e conoscenze generiche sull’argomento. Si rende allora necessario un approccio più esteso e strutturale e diventa pertanto fondamentale continuare il lavoro avviato con il questionario In buone mani. Il primo passo di in un percorso più ampio che preveda innanzitutto si parta da una mappatura delle professioniste già competenti per poi permettere alle persone LGBTI+ che intendono avviare un percorso di terapia di consultarlo liberamente, per un minor rischio di problematiche connesse.
Il passo successivo dovrà essere la costruzione di formazioni specifiche – anche in collaborazione con università e ordini professionali – per qualsiasi persona studi o lavori con la salute mentale. L’obiettivo a lungo termine è quello di includere le competenze riguardanti l’identità sessuale di una persona fra i loro strumenti di base.
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