di Elisa Manici

Bologna, luglio 2015: il Cassero, con la rassegna La città delle dame, affronta un classico tema femminista, dedicando un mese intero della sua programmazione estiva alla riflessione sul rapporto tra donne e potere. E ciò avviene con la piena collaborazione delle più autorevoli associazioni di donne della città: dalla storica Udi, a Orlando, alla Casa delle donne. Alle nostre lettrici più giovani (uso politico del femminile come universale, NdA) potrà sembrare un fatto scontato, se non banale. Ma fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile.

Oggi il movimento LGBT+ ha imparato a considerare l’intersezionalità delle oppressioni e delle lotte – cioè la loro compresenza e influenza in più direzioni – che si giocano sui singoli individui, e l’affiatamento coi movimenti delle donne, come naturale e inevitabile. Sia le donne che gli omosessuali, in modi diversi, sono ancora oggi schiacciati dal potere del maschio bianco eterosessuale, cioè dal patriarcato. Parola agée, ma ancora attuale: il patriarcato è vivo e vegeto, nonostante la parità formale raggiunta dalle donne, e i diritti alle persone omosessuali – non quelle italiane, ovvio. Se poi sei lesbica o trans, l’oppressione raddoppia: la subisci in quanto donna e in quanto persona omosessuale o transessuale.

Quindi il semplice buon senso vorrebbe che tra le varie categorie di oppressi ci siano stati, fin dalla nascita dei movimenti di liberazione, intreccio, relazione, solidarietà. Ma no, non ha sempre funzionato così. Il movimento femminista e quello gay, che in Italia si sono sviluppati entrambi negli anni ’70, avevano dimensioni ben diverse. Quasi di massa la lotta delle donne, che riusciva a influenzare l’agenda politica nazionale con le grandi battaglie per il divorzio e l’aborto; poche decine di attivisti pionieri il movimento gay. Le loro strade portavano nella stessa direzione, ma non si sono incontrate per lungo tempo. Certo, c’erano amicizie individuali, ma non patti politici, non coinvolgimento reciproco.

Questa situazione rimase abbastanza immutata fino ai primi anni ’90, quando nacque un altro attore sociale, prima inesistente: il soggetto lesbico, che nel nostro Paese prese vita dal femminismo, non dal movimento gay. Le lesbiche erano presenti fin dall’inizio nel movimento delle donne, ma nella totale invisibilità. A un certo punto iniziarono a costituirsi come comunità separata rispetto a quella femminista e a comprendere che era necessario crearsi un proprio immaginario, una propria cultura, una propria soggettività. Il lesbismo politico contestava la subalternità al potere e alla rappresentatività maschili, pur non ritenendo che la differenza tra uomini e donne fosse ontologica. Si alienò quindi le simpatie delle esponenti del pensiero della differenza, una corrente del pensiero femminista che ebbe molto successo in Italia e in Francia, secondo le quali l’orientamento sessuale rientrava nella sfera delle esperienze soggettive e non andava quindi tenuto in considerazione come elemento di differenza dal maschile. Ma il neonato lesbismo politico, a sua volta, contestava aspramente le “collaborazioniste”, cioè le donne che lavoravano insieme ai gay senza riuscire a percepirli come agenti dell’oppressione maschile.

Si deve arrivare al primo Pride nazionale, avvenuto a Roma nel 1994, per riuscire a vedere tutte le forze del mondo LGBT+  lavorare insieme per un obiettivo comune, sia pure ancora arroccate ciascuna nel proprio orticello identitario. Il resto del femminismo, intanto, cominciava dialoghi con il mondo che da “gay” si stava stabilmente trasformando in “LGBT”.

In anni recenti il diffondersi della queer theory e del pensiero di alcune teoriche, prima fra tutte Judith Butler, ci hanno insegnato che il genere è un dispositivo di potere da disfare, che essere ossessionate dai confini identitari è “una dismissione della politica”. Sia i femminismi che le soggettività LGBT+ hanno cominciato a dare meno importanza alla propria identità singola e a concentrarsi un po’ di più sugli obbiettivi comuni, capendo che i traguardi di una parte dei soggetti ancora oppressi sono i successi di tutte, perché rappresentano un avanzamento della civiltà. Era ora!

pubblicato sul numero 7 della Falla – luglio/agosto/settembre 2015