I MOSTRI ALL’ASSALTO DELLA (SEDICENTE) NORMALITÀ
«Gli uomini hanno paura di ciò che non conoscono» sosteneva Joseph Merrick, passato alla storia come Elephant Man. La figura del mostro è tanto presente nel nostro immaginario quanto è capace di stravolgere il costrutto di normalità.
Ne siamo attratt* e respint*, ed è in questo processo contraddittorio che trovarono spazio i freak show, forme di spettacolo popolari tra ‘800 e ‘900.
Come i gabinetti delle meraviglie prima di loro, l’intento era scioccare lo spettatore grazie alle persone che vi si esibivano, paragonate a mostri e descritte come rarità biologiche, sia mitizzate sia di ispirazione a numerose opere di narrativa.
Nanismo e gigantismo; arti in più o non sviluppati (focomelia); gemelli omozigoti nati congiunti, come i thailandesi Chang e Eng Bunker – da cui l’espressione “gemelli siamesi”; persone obese o scheletriche; donne con la barba causata dall’irsutismo, oggi riscontrato nel 5-15% delle persone Afab (assigned female at birth, ndr); presenza di caratteri sessuali del genere opposto, spesso falsificati per un pubbblico altrimenti troppo scandalizzato da vere forme di intersessualità. Sono solo alcuni dei cosiddetti freaks, tra cui si annoverano anche performer come mangiafuoco, fachiri e maghi, che non contavano però sul successo scatenato dalla paura e dall’ignoranza verso caratteristiche fisiche e genetiche fuori dalla norma.
Le vite dei «fenomeni da baraccone» mettevano in discussione il dualismo dei confini tradizionali tra maschio e femmina, animale e umano, grande e piccolo, realtà e illusione. Le condizioni che li relegavano ai margini dalla società erano le stesse che ne determinarono il successo.
Chi popolava le quinte dei circhi itineranti e delle gallerie dedicate, spesso aveva in comune con gli altri solo l’intrattenimento del pubblico pagante; il suo corpo veniva spettacolarizzato e oggettificato, proprietà di uno dei tanti showman che ne traevano profitto. Ma in una società che sembrava rifiutare la loro esistenza, esibirsi era un modo per essere indipendenti e stringere legami familiari: è difficile tracciare una separazione netta tra sfruttamento e autodeterminazione. È l’ennesimo paradosso.
Dopo la popolarità degli anni Venti, l’interesse calò in fretta: il cinema e poi la televisione sopperivano all’esigenza di intrattenimento della classe media, e questo portò molti freak alla ricerca di un processo di medicalizzazione.
La sub-cultura hippie, quella dei fricchettoni, rivendicò il termine “freak” durante gli anni Settanta, facendo dell’essere reietti il proprio stendardo. Qui lo slogan «freaking out!» era connesso all’utilizzo di droghe allucinogene.
Pur rimanendo controversa, oggi la parola ha perso gran parte della connotazione negativa: ne fanno uso emarginat* che si ritengono tali, ma rimane abilista se utilizzata nei confronti di una persona con disabilità. A questo proposito, la comunità composta da persone con disabilità se ne sta a sua volta riappropriando. Vi ricorda qualcosa?
Le evoluzioni del linguaggio non sono l’unica similitudine tra freak e queer: entrambe le comunità sono considerate “mostri” pericolosi per la società, sfidano i confini e la morbosa ricerca della normatività, i cui costrutti mettono in dubbio, lottando per la liberazione e l’autodeterminazione dei corpi non-conformi.
Scrive Leslie Fiedler, nel saggio Freaks. Miti e immagini dell’io segreto (1978): «Forse in una fase storica in cui cerchiamo a tutti i costi di eliminare i mostri e normalizzare il mondo, è importante rendersi conto che i normali non esistono».
Forse, a più di 40 anni da questa pubblicazione, stiamo iniziando a prenderne atto.
Pubblicato sul numero 54 della Falla, aprile 2020
Immagine da amazon.it
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