Spesso si considera la fantascienza il genere dell’escapismo per eccellenza, dedicato al trasportare la mente de* lettor* lontano dalla vita quotidiana e tenerla incastrata in articolati mondi costruiti ad arte per coinvolgere. Nella sua storia, tuttavia, questo genere è stato spesso rivendicato dalle autrici femministe come mezzo ideale per raccontare la realtà con una prospettiva diversa da quella del romanzo realista, per la sua capacità di essere compiutamente e concretamente politico.
Nel 1924 Virginia Woolf scriveva Mr. Bennett e Mrs Brown per auspicare un cambio di paradigma nella scrittura dei romanzi. Pur concordando con gli Edoardiani nel ritenere i personaggi il cuore di una narrazione, l’autrice sosteneva che per la propria generazione non bastasse più puntare alla credibilità, serviva afferrare la realtà. Woolf dà il nome di Mrs. Brown all’essenza del romanzo, paragonata a una signora piccola e sfuggente che sale sul treno in un angolo davanti all’autore, e che sparisce come quasi una visione poche fermate dopo. E se a fine ‘800 uno scrittore avrebbe ingannato l* lettor* descrivendo Mrs. Brown nel dettaglio perché credessero che, dato che lui le aveva confezionato degli abiti, doveva per forza esserci una persona a indossarli, nel ‘900 servivano nuovi strumenti, nuove convenzioni che si sono concretizzate nel romanzo psicologico inglese. Tuttavia, per Woolf «Non ci sono Mrs. Brown in Utopia»: il genere fantascientifico non può avere personaggi reali.
Negli anni ‘70 Ursula Le Guin riprende questa affermazione per superarla: forse in Utopia non può esistere Mrs. Brown, ma nella Terra di Mezzo sì, anche se ha i piedi pelosi. Secondo Le Guin in quel momento per indagare il contemporaneo serve uno strumento nuovo, che crei narrazioni e convenzioni che parlino con voci diverse da quella del romanzo classico o di quello psicologico, che erano l’espressione contingente di una piccola parte dell’umanità, occidentale bianca e maschile in prevalenza: «Essi si ritenevano norma; noi non abbiamo norme.»
Sembra una frase poco adatta a descrivere molte opere mainstream di questo genere: un esempio su tutti è il primo capitolo della saga Dune, da poco trasposto anche al cinema, problematica per il modo in cui rappresenta le donne, per l’ambientazione spudoratamente colonialista, per non parlare dell’omofobia che guida la descrizione degli antagonisti. La frase di Le Guin sembra calzare poco su un’opera simile, esiste però anche un’altra classe di storie di fantascienza che rispondono a quella che Le Guin chiamava «teoria narrativa della sacca».
Mutuato da Elizabeth Fisher e riletto in chiave narrativa, il concetto è che nella preistoria il primo oggetto culturale sia stato proprio la sacca, e che essa sia stata soppiantata dal bastone per il suo soft power: le «storie del bastone» avvincenti e incentrate sul conflitto hanno battuto le «storie della sacca» in cui raccogliere tutti gli aspetti della vita quotidiana. In fantascienza, l’approccio della sacca permette di spogliare l’impresa scientifica e trasformarla da arma di dominazione in sacca di cultura. Ed è così che la letteratura di genere diventa realistica e si avvicina alla speculative fiction, o fabula speculativa. («È uno strano realismo, ma la realtà è strana»)
Il termine speculative fiction viene coniato da Robert A. Heinlein nel 1949 e nasce come sottogenere della fantascienza che si concentra più sulle reazioni umane alle novità di scienza o tecnologia che sulle novità in sé. Poi viene progressivamente espanso daə autorə fino a diventare un supergenere che comprende la fantascienza e ogni storia che preveda un What if più o meno grande (da «e se i nazisti avessero vinto la guerra mondiale?» a «e se il mondo fosse abitato da elfi e hobbit?»). È in questo super-genere che rientrano molte delle distopie e delle ucronie che nascono negli anni della seconda ondata femminista grazie proprio a Margaret Atwood e Ursula Le Guin, che parteciparono anche al dibattito, ma anche molte delle opere delle autrici legate al femminismo nero come Octavia E. Butler.
Non è semplice delimitare questo genere (con queste premesse ogni narrazione potrebbe caderci in piccola o grande parte) che infatti viene oggi riscoperto dal femminismo del compost, come spiega Antonia Anna Ferrante in Cosa può un compost: «Bloccando le utopie totalizzanti, la FS [FantaScienza e Fabula Speculativa, NdA] faceva sì che la politica restasse viva, concreta.» Un approccio di questo tipo è ben riconoscibile in alcune serie tv come Squid Game e Black Mirror, che forse è proprio l’esempio perfetto di questo genere e l’ha in un certo senso consacrato più dei libri che l’hanno preceduto, ma anche in videogiochi come The Last of Us o inaspettatamente nei racconti della raccolta Il suo corpo e altre feste di Carmen Maria Machado. Inoltre, la sua adattabilità a diverse prospettive permette di scrivere racconti con una marcata sensibilità transpecista come in Più vasto degli imperi e più lento, o superare l’essenzialismo biologico con un personaggio come Soq, unə fattorinə compiutamente genderqueer che in La città dell’orca di Sam J. Miller spicca proprio grazie all’assenza di enfasi con cui viene descrittə al lettore.
Consigli di lettura:
Ursula K. LeGuin, Il linguaggio della notte (in particolare La fantascienza e la signora Brown)
Ursula K. LeGuin, I dodici punti cardinali
Antonia Anna Ferrante, Cosa può un compost – Fare con le ecologie femministe e queer
Sam J. Miller, La città dell’orca
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