IS MULTICULTURAL BAD FOR LGBT+ PEOPLE?

di Nicola Riva

Le culture tradizionali che definiscono il nostro orizzonte culturale, che risentono dell’influenza dei tre principali monoteismi (Ebraismo, Cristianesimo e Islam), erano e spesso sono ancora culture fortemente omofobe che hanno legittimato e spesso ancora legittimano la repressione dell’omosessualità. Ciò vale oggi in particolar modo per l’Islam. Diversamente da ciò che avviene in Israele e nella maggior parte dei Paesi a maggioranza cristiana (fanno eccezione pochi Paesi africani o cristiano-ortodossi) in nessun Paese in cui l’Islam è religione maggioritaria l’omosessualità è più che tollerata; nella maggior parte di quei Paesi essa è soggetta a sanzioni severissime che possono arrivare fino alla pena di morte e che, benché spesso non vengano effettivamente erogate, condannano le persone omosessuali alla marginalità e all’insicurezza. Si tratta di un dato che non lascia alcun dubbio circa la natura profondamente ostile all’omosessualità dell’Islam.

Col crescere della presenza islamica in Europa, la questione di come il movimento LGBT+ debba porsi in relazione all’Islam diviene ineludibile. È facile capire perché quella questione sia fonte di un certo disagio. In un momento storico in cui l’Europa è attraversata da rigurgiti di intolleranza xenofoba e razzista, spesso coltivata dagli stessi gruppi che si oppongono alle istanze LGBT+, il timore di essere assimilati a quei gruppi e/o di fomentare ostilità e violenza nei confronti delle minoranze islamiche induce spesso a un imbarazzato silenzio. Ed ecco che chi, giustamente, non perde occasione per criticare l’omofobia della Chiesa cattolica – omofobia mitigata da secoli di convivenza con uno Stato laico e una cultura secolare diffusa – e per pretendere un’autocritica da parte del mondo cattolico – che spesso all’invito non si sottrae – esita a denunciare l’omofobia islamica e a pretendere che le minoranze islamiche si impegnino in un’autocritica di cui certo non hanno minor bisogno.

Si tratta di un doppio standard morale che non ci possiamo permettere senza tradire la nostra ragion d’essere, che è quella dell’emancipazione delle persone LGBT+. Benché sia comprensibile che la nostra condizione ci induca a simpatizzare con la causa di altri soggetti oppressi, dovremmo oramai sapere che i nemici dei nostri nemici non sono per forza nostri amici. E in caso di conflitto la nostra priorità deve essere chiara: il benessere delle persone LGBT+, a partire da quelle che vivono nelle comunità in cui l’omofobia è più radicata. La sollecitazione di una riflessione autocritica all’interno di quelle comunità è necessaria, se vogliamo conservare le libertà e i diritti che abbiamo a fatica conquistato. Né possiamo lasciare che siano gli imprenditori della paura a dare voce al disagio che molte persone provano di fronte a culture diverse dalle nostre e poco ospitali rispetto a quegli ideali di libertà e di eguaglianza che rappresentano il meglio della civiltà europea.

La migrazione dall’Africa e dal vicino Oriente è destinata ad aumentare e la presenza islamica non potrà che divenire una presenza sempre più numericamente rilevante e politicamente influente in Europa. Opporsi a ciò non sarebbe solo inutile ma anche immorale: abbiamo un obbligo di ospitalità verso chi fugge dalla miseria, dalla guerra civile e da regimi oppressivi. Ma non possiamo trattare le tradizioni altrui in modo diverso da come abbiamo sempre trattato la nostra. È merito di un impegno alla critica della cultura se oggi le società europee sono più ospitali nei nostri riguardi di quanto non fossero anche solo pochi anni fa. Le culture sono mutevoli e in costante trasformazione. Un Islam riformato (quello “moderato” è raramente tale per ciò che ci riguarda) è possibile: sostenere il contrario significa essere un integralista o ritenere che vi sia una differenza tra “noi” e “loro” che renda per “loro” impossibile ciò che è stato possibile per “noi”, che è la peggiore forma di razzismo.

pubblicato sul numero 18 della Falla – ottobre 2016