È sempre incauto strappare al suo tempo un testo e legarlo alla quotidianità. Eppure in questi giorni bui di incertezza e scoramento ho ripensato spesso a una poesia di Clemente Rebora, e l’ho fatto ogni qual volta ho pensato all’Europa. «O carro vuoto sul binario morto» è il primo verso di quel Frammento XI che rifletteva l’inquietudine esistenziale degli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale. Come non pensare all’Unione Europea, nata dall’acciaio e forgiata da ideali che sembrava inevitabile sposare dopo la prima metà del ‘900? Come non pensarci proprio oggi, quando l’incapacità di reazione e di unione sembra aver paralizzato le prospettive politiche comunitarie? 

All’acme di una crisi internazionale senza precedenti recenti, l’Unione Europea sta perdendo la prima sfida reale proprio agli ideali stessi che l’avevano costruita, dalla pace all’eguaglianza. È corrosa dall’interno dall’ascesa di una rabbia che ha snobbato e che abbandonata a sé stessa ha trovato accoglimento nelle destre estreme: «Ecco per te la merce rude d’urti», continuava Rebora, e noi stiamo a guardare. 

Come soggettività oppresse abbiamo spesso pensato all’Europa, sperando in un giudice pronto a tenere il punto su principi che ci tutelassero, ma quegli stessi principi appaiono sempre più lettera morta, come quel carro abbandonato in un sistema che non funziona più. Una paralisi ben esemplificata dalla foto scattata al vertice informale parigino sull’Ucraina convocato in fretta e furia da Macron. Undici i paesi coinvolti, sui ventisette del Consiglio d’Europa, scelti probabilmente con una logica di opportunità perché i veti incrociati e altri meccanismi contribuiscono proprio alla stasi: «E trascinato tramandi / e irrigidito rattieni / le chiuse forze inespresse / su ruote vicine e rotaie / incongiungibili e oppresse». Le «forze inespresse» sono anche quelle che l’Europa ha svilito incapace di ritagliarsi un ruolo politico internazionale di peso sia per quanto riguarda l’Ucraina che per quanto riguarda Gaza, sia per la crisi economica sia per quella migratoria. Il carro dell’Europa forse è più che mai a un bivio, quello tra la vita e la morte: «e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / mentre la terra gli chiede il suo verbo». 

Sempre Rebora, sempre il Frammento XI. Ho ripensato spesso a questa poesia anche perché sento di essere quella terra che chiede parola, incapace di trovarla. Ho ripensato spesso a questa poesia perché la fine inevitabile dell’ultimo verso mi sembra imminente, ma non voglio davvero pensare che per l’Europa sarà così: «e appassionata nel volere acerbo / paga col sangue, sola, la sua fede».

Immagine in evidenza: unita.it