di Vincenzo Branà
Nel 2004 in Australia, quando il Parlamento bocciò una proposta di legge sul matrimonio egualitario, il leader di uno dei collettivi queer di quel Paese, Dale Parker Anderson, guidò la sua comunità a una protesta alquanto singolare: tutte e tutti raggiunsero un’isola disabitata nel Mar dei Coralli, vi piantarono una bandiera arcobaleno e dichiararono l’indipendenza dall’Australia.
Così nacque la micronazione del Gay & Lesbian Kingdom: collocarono una buchetta per le lettere e stamparono francobolli, presero a prestito I am what I am come inno nazionale e istituirono come moneta il dollaro rosa. La storia, per quanto surreale, è realmente accaduta e ancora oggi se ne trovano tracce in numerose testate autorevoli. Nel rileggerla, soprattutto alla luce del deprimente dibattito italiano sulle unioni civili, viene quasi da chiedersi se non sia meglio, anziché arrabbiarci, occupare l’Isola d’Elba o addirittura la Sardegna.
L’idea di Dale Parker Anderson fa indubbiamente sorridere ma nella sua assurdità contiene un consiglio utile, forse perfino due: innanzitutto l’estrema creatività del gesto, che sfiora la follia, ha qualcosa di rasserenante, di liberatorio. Possiede l’istinto e l’utopia, realizza il desiderio di una rivoluzione non violenta. E dire che anche loro, dinanzi alla delusione, si saranno chiesti: “E adesso che si fa?”. Ma forse a differenza di come facciamo noi, loro ci hanno messo il genio, il desiderio folle, che resta a disposizione anche quando non si ha un’isola a portata di mano. Il consiglio più importante però nella storia del Gay & Lesbian Kingdom è forse quello dell’indipendenza, una condizione che in Australia si scelse di recuperare prima di imboccare la via di una nuova e ancor più ostinata battaglia. E questo suggerimento è decisamente meno folle, anzi è molto, molto serio.
pubblicato sul numero 13 della Falla – marzo 2016
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