È da più di un mese che le iraniane e gli iraniani stanno protestando. All’inizio chiedevano verità sulla morte di Jina Mahsa Amini, ma oggi le richieste si sono moltiplicate e radicalizzate, passando da slogan incentrati sulla morte della giovane a slogan che chiedono la fine della Repubblica islamica. Questa dinamica di radicalizzazione mette le proteste di oggi in continuità con quelle degli ultimi 10-15 anni in Iran. Tuttavia, è importante sottolineare anche gli elementi di rottura e di novità e, soprattutto, chiederci a quali futuri femministi queste proteste ci preparano.
Le proteste sono animate e capitanate da giovani donne che, con una nuova radicalità di azione e pensiero, portano in piazza la questione dell’autodeterminazione e del controllo sul proprio corpo. Guardando alla produzione culturale che sta fiorendo intorno alla lotta, vediamo che la questione queer e dei corpi non conformi è inclusa. Stiamo assistendo alla prima rivoluzione femminista e intersezionale della storia contemporanea?
Questo movimento condivide l’approccio intersezionale e la radicale domanda di democrazia con altri movimenti – come ad esempio, Black Lives Matter, il movimento pro-democrazia di Hong Kong, i movimenti anti-occupazione palestinesi fino a Non Una Di Meno – ma nel contesto iraniano, esso pare avere un potenziale rivoluzionario che in altri contesti manca.
In seguito alla morte di Amini, abbiamo visto le proteste nascere nel Kurdistan iraniano e, da lì, espandersi. Abbiamo visto scioperare i commercianti e gli studenti medi e universitari; per la prima volta in decenni, stiamo assistendo a una saldatura tra gli scioperi degli operai del petrolchimico e quelli di questi altri settori sociali. Si tratta di un movimento composito da un punto di vista etnico, di classe e di genere, una novità rispetto ai movimenti precedenti, più frammentati geograficamente e in termini di classe. Tra il 2010 e il 2015, ho svolto ricerca nella regione di Van, nel sud-est della Turchia, a maggioranza curda. Van è il primo approdo per chi, dall’Iran, cerca protezione internazionale. Allora la città attraeva sia ə che nel 2009 avevano preso parte al “movimento verde” contro Ahmadinejad e che, per questo, cercavano rifugio; sia ə e famiglie curde che cercavano di sfuggire alla persecuzione dello Stato iraniano. Le persone iraniano-curde sottolineavano come, per loro, Ahmadinejad non fosse sinonimo di maggiore o minore repressione, che nessun politico aveva mai fatto i loro interessi e che consideravano il movimento verde estraneo alle loro priorità. La popolarizzazione dello slogan di origine curda «zan, zendeghi, azadi», ossia «donna, vita, libertà», e la sua diffusione in tutto il paese ci dice quanto le cose siano diverse oggi. Ci dice anche che questo movimento pensa e desidera una società più inclusiva e giusta di quella che 15 anni fa era immaginata dalla generazione precedente.
La forza rivoluzionaria del movimento è legata al protagonismo radicale e anti-patriarcale delle donne. Qualche settimana fa un’amica mi raccontava di come, durante le proteste del 2009, non mancassero donne (tra cui lei) che si scoprivano il capo e lanciavano slogan contro l’obbligo del velo. «Venivamo insultate, ci veniva detto che volevamo dividere il movimento. Ce lo dicevano sia uomini che donne. Oggi le ragazze che bruciano il velo sono applaudite da tutti… è un cambiamento epocale», ha aggiunto. Questi gesti hanno legittimità nelle piazze perché rispecchiano cambiamenti già avvenuti nelle famiglie, nelle scuole, negli spazi privati che le iraniane e gli iraniani attraversano e abitano, nei quali hanno già elaborato, razionalizzato e accettato quello che vediamo nelle piazze. Si tratta di un dato di cui, in realtà, eravamo già a conoscenza, grazie ai sondaggi dell’agenzia olandese GAMAAN, che hanno rivelato come la maggioranza della popolazione sia contraria all’obbligo del velo. Si tratta di un dato che era facilmente deducibile dalla quantità di donne che, a Teheran, girano con il velo sulle spalle. Durante la mia ultima visita a giugno, ho potuto apprezzare quanto questa fosse una cosa normale e quanto indifferente fosse l’attitudine generale. Mi è parso un dato importante e nuovo, se messo in relazione con il periodo pre-pandemia.
Il protagonismo delle donne e la loro resistenza – per strada, nelle scuole e nelle università, attraverso forme canoniche come la violenza contro le forze dell’ordine o più creative come il danzare e l’arte pubblica – sono importanti, ma è la ribellione al controllo dello Stato sul loro corpo a rendere il movimento anti-patriarcale. Nel 1979, Khomeini disse che era compito delle donne mostrare al mondo la forza della rivoluzione e il mezzo per farlo era il chador. Grazie a decenni di militanza e riflessione femminista, sappiamo che il corpo delle donne, la loro apparenza, il loro comportamento non sono mai questioni private ma pubbliche. È a questa logica che le iraniane si ribellano ed è per questo che il loro messaggio è universale, come hanno scritto le donne del Balucistan (zona povera, militarizzata e abitata da minoranze linguistiche ed etniche a sud-est dell’Iran) in una dichiarazione di solidarietà con le proteste: «Noi, donne baluce, insieme ai nostri fratelli abbiamo sofferto l’oppressione nazionale/etnica e classista/religiosa. Inoltre, come donne, eravamo considerate namus (ndr. onore), non solo dai nostri padri, fratelli e mariti, ma anche dal sistema di affiliazione clanica, nonché dal sistema religioso e dallo Stato. Per anni, a volte appassionatamente e apertamente, a volte a casa e in piccoli gruppi, noi, insieme ai nostri fratelli e sorelle, abbiamo resistito al patriarcato, al fondamentalismo religioso, alla discriminazione etnica e di classe». Come mi ha detto un’amica, non si tratta di proteste anti-islam ma pro-scelta, inclusa quella di velarsi, e di resistenza a stati e autorità che impediscono lo scegliere.
La natura anti-patriarcale delle proteste, tuttavia, non è garanzia di un futuro femminista. Nel periodo pre-rivoluzione, l’uso del velo era scoraggiato dallo Stato in quanto simbolo di tradizionalismo. Era in opposizione a questa interferenza che le donne cominciarono a scegliere di mettere il chador. Nemmeno il ruolo cruciale giocato dalle donne nelle mobilitazioni e nella lotta armata garantì loro, dopo la rivoluzione, diritti e centralità politica e pubblica. Questa considerazione è ampiamente discussa sui social e molte iraniane stanno iniziando delle vere e proprie campagne per smascherare coloro i quali, utilizzando ipocritamente lo slogan «zan zendeghi azadi», attaccano in maniera sessista le donne in disaccordo con loro e chi usa argomenti e un linguaggio patriarcali. Per esempio, la canzone Inno delle donne del cantautore Mehdi Yarrahi, conosciuto per le sue posizioni critiche al regime, è stata al centro di polemiche poiché ripropone il tema degli uomini che proteggono le donne che stanno lottando. «L’ho talmente infastidito sui social che ha cancellato tutti i miei commenti», mi ha detto un’amica, sottolineando che è necessario stigmatizzare questi comportamenti e che, per fortuna, sono in molte a farlo.
Il presidio dello spazio pubblico e virtuale in funzione femminista è fondamentale, mentre monitoriamo lo sviluppo delle proteste ed esprimiamo la nostra solidarietà.
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