di Aster di Bartolo, Veronica Mastrogiovanni, Rae Bellucci, Rachele Marini, Giò Papagna

Il contatto con la natura è probabilmente uno dei bisogni a cui prestiamo meno attenzione. Viviamo dentro, o vicino, a grandi città, ci godiamo un aperitivo al parco, guardiamo le stagioni cambiare gli alberi piantati lungo la via di casa. Eppure numerose ricerche dimostrano quanto il contatto con la natura sia fondamentale per la salute psicologica, emotiva e fisica dell’essere umano.

Vivere per dieci giorni nella natura selvaggia del Peloponneso è stata un’esperienza unica, che ci ha dato modo di riconnetterci con l’ambiente e con la parte più profonda di noi. Grazie alla collaborazione tra Cassero Global e Active Rainbow – associazione lettone che scrive progetti di scambio internazionali per giovani appartenenti alla comunità LGBTQIA+ – il team del Cassero si è unito a gruppi provenienti da altri cinque Paesi per indagare le intersezioni tra natura, queerness e salute mentale nel cuore del Peloponneso, a Hopeland, un’eco-comunità che sorge attorno a una riserva protetta che accoglie alberi pluricentenari, tra cui una quercia di 400 anni.

«Vedendomi catapultata all’improvviso in un ambiente bucolico al quale, da ragazza di città quale mi consideravo, non ero abituata, ho attraversato con stupore diverse fasi» racconta Aster, partita dalla rumorosa Trieste. «Quando il mio piedino da fata urbana ha toccato la terra arida di Hopeland indossavo degli anfibi neri, un paio di pantaloni neri eleganti e una camicia nera con dei fiori bianchi. Il giorno dopo ero già in shorts, crop top e scarpe da ginnastica, quello dopo ancora in infradito e al quarto giorno danzavo scalza sulla nuda terra dell’Ellade. Dal principio ho capito che, nonostante quel terreno fosse particolarmente secco e arido, sarebbe stato fertile e fruttifero per la mente e per l’anima».

Il contatto con la natura, lo stile di vita in comunità ci hanno permesso di dedicarci all’ascolto di noi stessɜ e dell’altrɜ. I ritmi frenetici della città ci inducono a misurare e gestire il tempo in maniera funzionale portando così a una frammentazione dei rapporti con noi e le altre persone fino all’annullamento della dimensione dell’ascolto dell’altrə. Manca forse il tempo per potersi ascoltare?

Ascoltare se stessə e l’alterità significa immergersi nella complessità, significa comprendere, dare spazio all’altrə di esprimersi attraverso la propria voce e anche attraverso il silenzio. Anch’esso è molto spesso dato per scontato. Nella nostra esperienza abbiamo avuto modo di coglierne il valore grazie a diverse attività ed esercizi che prevedevano lo stare in silenzio per poter accogliere e attenzionare gli stimoli esterni della natura e le altre persone.

 «Nella natura mi sono spogliatə delle mie vesti urbane, mettendomi a nudo di fronte a me stessə e allɜ altrɜ, rivalutando le mie convinzioni e le aspettative che avevo su di me».

Siamo noi a creare la nostra esperienza di vita. Quello che Hopeland ha fatto non è stato altro che restituirci il tempo e lo spazio dove poter semplicemente essere: essere noi stessɜ, ascoltare i nostri bisogni e i nostri desideri oltre ogni giudizio e aspettativa. «Il mio intuito non avrebbe comunque potuto prepararmi ad un’esperienza tanto ricca di crescita e sorprese», continua Aster: «si è trattato di una sorta di percorso iniziatico durante il quale ho sviluppato determinate chiavi di lettura che mi hanno permesso di accedere ad alcune parti di me che mi erano nascoste. Un passo fondamentale di questo percorso è stato riscoprire il potere del gruppo e capire che da solɜ non possiamo fare molto in questo mondo, capire quanta importanza abbia trovare nella nostra vita una comunità che costituisca un safe space nel quale ci sentiamo liberɜ di esprimerci e quindi di crescere nelle nostre identità e potenzialità, senza perdere mai la nostra individualità ma, anzi, condividendola con le altre persone, in modo che tutte possano esserne ispirate».

Abbiamo ritrovato le nostre bambine attraverso la memoria del gioco. «Un giorno, presso la palestra all’aperto di Hopeland, ho iniziato ad arrampicarmi sulle sbarre su ogni struttura si prestasse a essere scalata e poi, con la corda per saltare, mi sono costruita un’altalena annodandola alle parallele. Ho giocato come unə bambinə, stavo bene ed ero felice. Un altro giorno, con una cara amica, ho preso dei nastri arcobaleno e ho iniziato a farli volteggiare nel vento, osservando i loro colori e le forme che assumevano. Ho capito che la felicità sta veramente nelle piccole cose, nelle persone con le quali le condividiamo e vivere questa esperienza mi ha permesso di coglierne l’importanza».

Aderire a progetti di questa portata è una possibilità di crescita, di incontro, di scambio e di riflessione e ve la consigliamo con tutto il nostro cuore selvatico.