Accessibilità, inclusività, dialoghi sul femminismo al festival Some Prefer Cake in una sala gremita di donne che parlano di come sono nati progetti editoriali di Non voglio scendere. Femminismi a zonzo (Golena, 2019) di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi e Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista di Benedetta Pintus e Beatrice Da Vela (Villaggio Maori, 2019).
«Quelle che abbiamo qui davanti questo pomeriggio sono delle scrittrici e attiviste, queste due libri a chi sono rivolti?» chiede Elisa Coco, moderatrice del dibattito insieme a Giulia Sudano. Comincia Barbara Bonomi dicendo che l’idea di questo libro è venuta all’editrice di Malatempora, con la raccomandazione che fosse un libro rivolto alle giovanissime, anche a quelle che non sono attiviste; non si capisce chi ha scritto un capitolo e chi l’altro tra le due autrici, volutamente, perché non sempre lei e Marina Turi, coautrice, sono d’accordo su tutto. Hanno così preferito che nella stesura del testo non si riconoscessero le diverse mani. «Quello che abbiamo voluto fare con questo libro è piantare semi di discussione». E infatti molte sono le cose su cui discutere. La struttura del libro è pensata affinché ogni capitolo sia una cosa sé e possa essere letto da solo. È un libro pensato come una «metropolitana femminista da una fermata a un’altra, con incroci tra un capitolo e un altro. Abbiamo voluto scrivere un anti-mattone femminista – proseguono le autrici – questo libro è stato pensato per divulgare il femminismo: è un libro piccolo e qualche uomo ha detto che non è un libro perché non supera le cento pagine: quindi abbiamo imparato dagli uomini anche che questo non è un libro, anche questo ci hanno voluto insegnare».
La platea ride, ma il discorso entra nel merito quando Pintus e Da Vela riportano il discorso sul femminismo che sta tornando nelle piazze. Nel loro testo, Siamo Marea, hanno cercato di raccontare il femminismo da un’idea di intersezionalità ai giovani non esperti, parliamo di concetti base. È una sorta di manuale, con parole chiare sul femminismo, sull’emancipazione, sull’autodeterminazione e sull’autocoscienza. Concetti che spiegano il femminismo con l’avvertenza che adesso occorre, come esigenza primaria, affiancare alla teoria la pratica del femminismo, perciò abbiamo aggiunto alcune interviste ad attiviste che lavorano nel quotidiano, che il femminismo lo praticano nella vita di ogni giorno per cambiare le cose: «Parliamo del rapporto tra economia e femminismo, parliamo del diritto alla la casa, parliamo del femminismo in ambito islamico in Italia e non solo», affermano le autrici.
Benedetta Pintus dice che anche nel loro caso è stata la casa editrice a proporre loro di scrivere di femminismo «Perché qualcosa sta cambiando. È una cosa importante questa – prosegue – da tanto tempo non c’erano più state da parte degli editori accoglienza e attenzione alla parola femminista, è stata per lungo tempo un termine negativo». Coco sottolinea che: «Alcune case editrici usano il femminismo per fare marketing, perché va di moda parlare di femminismo. Possiamo dire che il femminismo non fa più paura, è tra le parole più cliccate online, ma è ancora una cosa scomoda. Entrambi i libri – continua Coco – parlano della rivoluzione femminista, infatti i due termini rivoluzione e femminismo devono andare insieme». «Rivoluzionare il sistema non è accettabile, la rivoluzione femminista non è scontata e può essere la chiave per cambiare il sistema, che è al capolinea per la stanchezza: la rivoluzione femminista è la risposta», afferma Da Vela.
Barbara Bonomi parla di intersezionalità, «Che è parola molto usata in un ambito più generalista, difficile da tradurre a chi non la conosce perché noi femministe con la pratica l’abbiamo interiorizzata. La sua origine – spiega – viene da quei femminismi che hanno messo in discussione quelli occidentali: intrecci di etnia, condizioni di lavoro e sociali diverse hanno fatto riflettere sul fatto che noi donne occidentali siamo in un ambito privilegiato. Praticare l’intesezionalità è dato per scontato e ora per noi è il sessismo che viene prima di altre questioni. L’intersezionaltà femminista però – avverte Romagnoli – ha molta teoria, ma vacilla nella pratica. Più movimenti e meno accademia».
Anche per Marina Turi il femminismo si deve trasferire necessariamente in una pratica. «In Italia è difficile – dice – in Spagna hanno miscelato molto di più le problematiche, hanno una società molto più multietnica e dalle esigenze diversificate, grazie alle colonie e alla comunanza di lingua con esse, e questo facilita le cose, le intese tra gruppi».
Per Pintus «L’intersezionalità è il superamento dell’inclusività e fa mettere in discussione le proprie convinzioni. Nel nostro libro spieghiamo il senso del concetto di superamento dell’inclusività, che significa il piacere, il privilegio di includere un altro e allo stesso tempo l’atteggiamento dell’altro, di colui che viene incluso che si trova nella situazione di dover ringraziare chi lo include, in una condizione di sottomissione. L’intersezionalità – prosegue Benedetta – è l’arte degli scambi e nelle sue diverse soggettività presuppone una trasformazione. La sfida è non sovrapporsi ma trovare intese, finalità uguali, significa dialogo, e il dialogo a sua volta significa ascoltare gli altri con piacere, ascoltare, non prevalere – sottolinea Pintus -, convincersi che la tua voce non vale di più di quella dell’altro.
In Siamo marea il linguaggio usato nel testo per il plurale non è maschile o femminile, ma si usa la lettera X. Le autrici sostengono che usare il femminile plurale disturbi ancora una platea rispetto al maschile plurale tradizionale. Questo uso della X ha il significato di rispettare ed esprimere inclusione delle soggettività non binarie, cosa che si può fare, in alternativa, con l’asterisco. In Germania dopo M e F, la X offre nei documenti pubblici una terza possibilità. Anche la U è usata nel genere nominale, sia pure solo in alcuni ambiti informali e/o tra le attiviste. L’italiano fa finta di non sapere di essere una lingua sessuata, perché prevede le parole maschili anche al femminile: è l’uso che non le prevede, perché certi titoli o cariche erano prerogativa maschile.
Giulia Sudano, dell’associazione Orlando, chiede se le autrici non pensino anche loro che tra gli aspetti inclusi dalla parola intersezionalità, costituita dai concetti chiave di emancipazione, autodeterminazione e autocoscienza, non occorra sottolineare quest’ultima, perché senza l’autocoscienza come pratica collettiva l’intersezionalità rimane teoria.
Domanda poi cosa ne pensino le autrici delle alleanze e delle relazioni tra i movimenti femministi e del rapporto con l’esterno, ad esempio con gli ambientalismi. «L’intersezionalità è legata a un processo collettivo di autocoscienza» rispondono Pintus e Da Vela. «Si parte proprio da questa pratica anche se comporta, alle volte, autocompiacimento». «Bisogna cercare alleanze con altri movimenti – continuano le autrici -, il ché ci fa perdere ciò che si è conquistato dentro il punto di vista dell’altro con convergenze. Individualità sì, ma soprattutto contatti con realtà esterne. Occorre legare i movimenti di donne con i movimenti ecologisti e di chi si occupa di società; il femminismo senza autocoscienza è una scatola vuota». La mobilitazione è necessaria dunque, poichè non ci conosciamo davvero. L’autocoscienza in questi termini non è separatismo, che è tipico di società che subiscono oppressione. L’autocoscienza può essere percepita come una parola respingente rispetto alla parola femminismo, occorre dialogo e confronto per spiegare alle femministe e alla parte ecologista che le due cose vanno d’accordo, sono in relazione. «Dobbiamo uscire dal separatismo che viene praticato dagli oppressi su se stessi – insistono le autrici: l’omotranslesbofobia, il razzismo portano le persone che sono così a isolarsi, a fare gruppo a sé». Per questo crescere senza autocoscienza non si può, dovrebbe essere la base ma c’è paura, si teme di mettersi in discussione, «dobbiamo allearci, non essere in conflitto». Dobbiamo dialogare con nuove realtà come i sindacati, fare ascolto e rete contro il patriarcato, discutere solo tra di noi è inutile. Benedetta Pintus sottolinea che l’espressione “fare autocoscienza” ha un effetto respingente e suona come antico, come a volte femminismo. «Allontana i giovani. Ma le donne sono nei movimenti ambientalisti. Le giovani ambientaliste dicono di essere non femministe, ma le cose possono andare insieme». Giulia Sudano sostiene che tra le donne al potere si notano due tendenze: o diventano neoliberiste come Hilary Clinton oppure rifuggono il potere. Occorre quindi una via di mezzo: quali sono le forme della politica, come realizzare la visione del mondo che si ha, come sono i sono rapporti di forza tra lo Stato e l’individuo? lo Stato riconosce i diritti in assenza di questo non esistono. La gestione della cosa pubblica è importante. «Le femministe dovrebbero dire come vogliono il mondo – spiega Turi – , le femministe col potere devono reinventarlo, portare anche il compromesso che non deve avere un’accezione negativa, ma positiva perché in quel compromesso raggiunto c’è anche un pezzetto della nostra visione del mondo, il riferimento al femminismo è adesso ridotto al rapporto donna e maternità e questo è svilire il concetto». «Le donne devono avere l’idea della società che vogliono, hanno paura del potere perché il potere è patriarcale – afferma Da Vela -. Le donne sono state educate ad avere paura del potere, occorre riappropriarsi della potenzialità di gestirlo, attivarsi, sporcarsi le mani».
A fine presentazione Intervengono poi persone dal pubblico, sottolineando la mancata applicazione delle leggi quando si tratta di difendere le donne dalla violenza e che l’idea di autocoscienza ha comunemente un significato psicologista, inteso come un’esplicitazione dei propri problemi e quindi non c’entra con la politica, l’autocoscienza è invece un fatto culturale come è incorporato in un sistema sociale e culturale il femminismo. Alla fine del convegno noto che tra persone, asterischi, u e x io sono purtroppo l’unico uomo in sala.
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