Sono anni che partecipo agli eventi del Some Prefer Cake, e non studio mai il programma: mi piace farmi sorprendere, ma finora le mie aspettative sono sempre state soddisfatte, sia in termini di gusto, sia di tematica (lesbica). Quest’anno invece sono stata davvero sorpresa, e positivamente.

Appassionata di corti, mi godo le proiezioni mattutine con colazione inclusa e piacevole relax. L’argomento dei film di un festival di cinema lesbico non dovrebbe lasciare spazio a dubbi, ma la sorpresa di quest’anno è stata che il tema si è ampliato: il cinema lesbico evidentemente non parla più esclusivamente di donne lesbiche ma include soggettività e problematiche più ampie in cui le storie di più identità si intrecciano e non sono ormai più scindibili.

Lo si è visto nei cortometraggi e anche nel convegno che si è svolto parallelamente al Festival.

Il titolo del convegno, LESBICHE+, con quel piccolo simbolo di addizione indica una grande somma di realtà, spesso discriminate o ignorate, e ha davvero incluso in un unico contenitore più temi fondamentali come quello dell’accessibilità (accesso reale ai luoghi fisici così come simbolici della produzione e anche della fruizione dell’arte) non solo per le persone con disabilità motoria ma anche sorde, cieche, neurodivergenti, con orientamenti e identità di genere non normate, o grasse.

Naturalmente cortometraggi a tematica lesbica non sono mancati: Pura Sangre (di Myra Kathiria Rosa), Spicy Noodles (di Sophia Hochedlinger), Jantar pra seis (di Isabela Lisboa) hanno offerto un’interessante indagine sulle relazioni (soprattutto quelle concluse) tra lesbiche, mentre Neo Nahda (di May Ziadé) racconta in modo unico con una costruzione narrativa e visiva originale, anche attraverso foto d’archivio, la ricerca quasi investigativa di una giovane donna lesbica di sue consimili. Molto coinvolgenti sono stati anche i due corti sull’esplorazione della sessualità (femminile in Como nasce um rio di Luma Flôres, e trans in Lu & Feña di Lucifer Benedetti), nonché il racconto della difficile situazione del ritorno in una famiglia libanese omofoba di una figlia lesbica che studia a Berlino (Due to love di Elisa Ward).

Opera a sé è poi il videoclip inquietante e divertentissimo Psylocibin babies (di Sandra Lola Dada) che inneggia alle bambine lesbiche.

Ma torniamo ai corti dal respiro contenutisticamente più ampio, femminista in senso lato: il documentario Gaps di Sofia Esteve, Isa Luengo, e Marina Freixa Roca si concentra sulla repressione durante la dittatura franchista attraverso la testimonianza di una donna che l’ha subita, venendo internata in un riformatorio psichiatrico per anni. Atmosfera similmente oppressiva è quella di Washhh (di Mickey Lai) che, pur essendo fiction, è un pugno nello stomaco e parla di un gruppo di ragazze costrette a lavare i propri assorbenti sporchi sotto una pressione psicologica insostenibile. La protesta politica e un elemento fisiologico, quando coinvolgono una donna scatenano una violenza inaudita da cui è difficile, ma non impossibile, difendersi.

Vorrei riferire infine di altri tre cortometraggi, anch’essi, direi, femministi: il primo racconta la scoperta della masturbazione che alla fine del film passa quasi come messaggio divino, esilarante e leggero (Madonna mia di Valentina Garrett); il secondo, meno leggero per argomento ma comunque divertente, nonché un po’ splatter, è la storia di una vendetta di una donna sul suo stupratore (Berta di Lucía Forner Segarra), mentre l’ultimo, un documentario, parla di autodeterminazione, piacere, rispetto e BDSM, InDOMmitable & SUBversive di Marileo Calò.

Insomma, il SPC (e chi lo organizza con cura e competenza) quest’anno ci ha insegnato che non si può parlare di femminismo, inclusione, omosessualità o altri temi come se fossero paralleli: in realtà sono intrecciati. Le lotte si intersecano e vanno insieme, così come insieme si può godere dei magnifici film e delle interessanti riflessioni che anche quest’anno il SPC ha generosamente offerto al suo pubblico affezionato e sempre in crescita.