Sarà due volte protagonista della 21esima edizione di Gender Bender: il coreografo Daniele Ninarello debutterà con il suo Nobody Nobody Nobody. It’s ok not to be ok il 7 novembre all’Atelier Sì, mentre il 10 presenterà al Dams Lab Crowded Bodies, spettacolo di danza frutto di un percorso laboratoriale con la comunità bolognese di Performing Gender – Dancing in your shoes, il progetto triennale che sviluppa un legame tra professionisti della cultura e le loro comunità locali nel campo della danza e delle arti performative attraverso una discussione sul genere nel sistema della danza europea. 

Crowded Bodies coinvolge una ventina di danzatorə non professionistə, come si è costituito il cast che hai coordinato? Ci sono stati criteri particolari nella formazione della comunità bolognese?

Con il team formato da Simona Bertozzi e Aristide Rontini abbiamo proposto pratiche sul corpo attraverso seminari in diversi spazi, invitando senza alcun limite a partecipare. Erano workshop in cui si portavano pratiche di attenzione al corpo, consapevolezza, sguardo compositivo. Mi interessava trovare modalità e strumenti di ricerca per far uscire la nostra natura creativa, soprattutto quando si lavora con chi non lo fa per professione. 

Questi laboratori si sono poi trasformati in brevi residenze per affrontare il movimento, l’identità, i temi cari al progetto, ma anche per avvicinare chi partecipava a quello che io intendo per composizione coreografica. Il gruppo si è formato da sé, in fondo. Da anni porto avanti questo tipo di lavoro con diverse comunità: mi piace affiancare la mia ricerca artistica professionistica a un ricerca che viene chiamata di comunità, appunto, in cui mi relaziono con persone con le quali scopro e vado a fondo di questioni che mi interessano. Come prevede Performing Gender, ho incontrato anche altre comunità europee, in Svezia e in Francia, con proposte incentrate sulla mia poetica: la reciprocità e l’identità. Sono state la possibilità di vedere i feedback di altri corpi, per poi riportarli a Bologna e arrivare a costruire insieme la nostra performance.

Fotografia di Margherita Caprilli

Com’è stato il processo creativo? So che il lavoro è stato sinergico tra te e il gruppo.

C’è stata innanzitutto la volontà di mettersi in discussione. Ciò che le persone portano è sempre un tesoro, ed è abbastanza per tuttə noi che condividiamo quello spazio. Questo crea una sorta di orizzontalità dove ci si confronta con le proprie possibilità e i propri limiti, senza giudizi e pregiudizi. 

La condivisione è stata meravigliosa: diverse pratiche tutte connesse tra di loro, diversi tentativi di immaginare la scena. Io osservavo e ascoltavo chi avevo davanti per intuire come facilitare quella che chiamiamo danza. Crowded Bodies non è un lavoro costruito sulla tecnica. L’intenzione era che fosse pregno e caratterizzato dalla mobilità e dall’identità di chi l’ha costruito e lo mette in scena. 

Che cosa vogliamo dire quando pronunciamo la parola “io”? A cosa facciamo riferimento quando ci descriviamo? Cosa descriviamo di noi, come ci presentiamo, ma ancora di più: quanti frammenti di personalità e persone esistono in quell’io che stiamo nominando? L’individuo è una collezione di incontri. Dentro di noi risuonano tante persone, tante identità, tutte quelle che abbiamo incontrato e respirato a seconda dell’avvenimento che le scatena, che ci trasformano e da cui ci facciamo trasformare. 

Abbiamo costruito un dispositivo performativo che permettesse a tutte queste nature di fiorire e di farlo in un processo che fluisce, non per imporsi nello spazio ma per riconoscersi insieme come nature liquide, attraversate, nature trasversali e costantemente interdipendenti e connesse tra di loro.

Come dire: forse osservando te è più facile comprendere chi sono io piuttosto che dirti chi sono io senza ascoltarti.

Fotografia di Margherita Caprilli

Avete già presentato Crowded Bodies al pubblico in tre occasioni, anche in una versione con meno danzatorə: come sono state queste esperienze, come avete lavorato per adattarvi alla diversa composizione del gruppo e com’è stata l’accoglienza?

La prima uscita è stata al Bologna Portici Festival, alla Certosa, con tutto il cast. Un’esperienza incredibile, a partire dallo scenario. La reazione del pubblico è stata magnetica: il lavoro è un bestiario di posture dell’umano che rivela chi performa, chi è in quel momento mentre abita quella postura. Non è un presentarsi ma un riconoscersi, perciò si instaura con il pubblico una relazione empatica e sensoriale. Il progetto europeo prevede poi di circuitare in altre due realtà del network: siamo stati invitati in Olanda al Festival Boulevard a ‘s-Hertogenbosch nell’agosto 2023 e poi, a ottobre, a Lubiana. In tutte e due le occasioni abbiamo viaggiato con un cast ridotto, sulle sei, sette persone. Ci siamo inizialmente chiesti se avremmo avuto lo stesso effetto. Il titolo del resto significa corpi affollati, è un lavorare sul corpo come una folla che si muove, si rimescola: quando hai venti persone davanti vedi fiorire molte più posture, che si nutrono a vicenda. Il gruppo lavora in tempo reale, la coreografia non è scritta, hanno gli elementi con cui comporre ma viene chiesto di stare in ascolto perché questi elementi possano nascere nel tempo in cui decidono di farlo. Lə performer non performa se stessə, ma conosce se stessə davanti al pubblico che osserva.

Ci siamo accortə che i tempi non cambiavano, cosa non scontata. Lo stato di attenzione reciproca e l’ascolto del gruppo erano talmente ampi che i tempi delle azioni non sono cambiati ed erano in grado di sostenersi anche in pochə, il lavoro non perdeva di potenza. Sia in Olanda sia in Slovenia c’è stata una grande risposta da parte del pubblico. Crowded Bodies è in grado di girare in molti modi, non è mai uguale e chiede di stare sul tempo dell’avvenire costantemente. È forse una sorta di statement politico: restare in ascolto e sul tempo dell’avvenire dell’altra persona significa ricevere delle informazioni su dove stiamo andando insieme, accompagnarci. Un gesto d’amore importante.

Come vi sentite a presentarlo ora a Gender Bender con ben tre repliche?

C’è grande eccitazione, desiderio di farlo e condividerlo, di presentarlo nella città della comunità e nel festival che la supporta. Si è creato un clima di alleanza, di sorellanza, molto bello, una comunione di intenti in cui ognunə di noi mette davanti la reciprocità rispetto alle decisioni che prendiamo. Noi condividiamo un processo più che un lavoro: speriamo possa dare un canale di accesso ad altri possibili immaginari dello stare insieme. 

Passiamo ora al tuo spettacolo, in scena il 7 e l’8 novembre da Atelier Sì. Hai costruito Nobody Nobody Nobody. It’s ok not to be ok durante il periodo pandemico.

Il lavoro è nato durante il periodo del lockdown, influenzato da tutte le sensazioni che vivevo dettate dalla condizione in cui eravamo. All’inizio, ricordo che per moltə c’era quasi il sollievo di doversi per forza fermare, riposare, e così per me; poi però tutto ciò che doveva essere una protezione personale e collettiva si è trasformata in una forma di controllo. Ho cominciato a non stare bene e a non sentirmi affatto protetto.

Fotografia di Simone Cargnoni

Eravamo contenutǝ.

Esatto, e questo ha scatenato un sentito nel mio corpo, una sorta di crisi che non sapevo riconoscere. Mi ha riportato a galla qualcosa che avevo provato in età adolescenziale quando in quanto persona omosessuale ero vittima di violenza e bullismo. Non ho riconosciuto subito quello che provavo. Ho cominciato a danzare in cucina e non riconoscevo la mia mobilità. Ero mosso da qualcosa di diverso da quello che facevo fino a pochi giorni prima. Per lo più uscivano fuori gesti riconducibili a un codice che ci riguarda tuttə, non solo la danza. Avevano a che fare con le posture di controllo, violenza e difesa che il mio corpo stava spurgando. E così ho cominciato a pensare che il mio corpo stava protestando. E mi sono chiesto, che cosa faccio? Ho cominciato a uscire per danzare, prima di giorno poi nelle ore serali, erano dei piccoli statement. Nel mio palazzo si era creata una comunità tra le persone e c’era un videomaker che ha iniziato a riprendere questi momenti in cui rivendicavo una presenza nello spazio pubblico, perché soffrivo la paura dello spazio pubblico. Cristina Donà, con cui stavo collaborando, ha visto questi video e ha deciso di scrivere dei testi e Saverio Lanza le musiche

C’è un legame tra Crowded Bodies e questo lavoro? Da una parte il legame con l’altrə da sé, dall’altra cosa accade quando l’altrə ti controlla.

Sono connessi perché da una parte Crowded Bodies manifesta una rivoluzione a partire da una vulnerabilità che ci permettiamo come condizione possibile concedendoci alla comunità senza difese, arresǝ. In Nobody Nobody Nobody. It’s ok not to be ok ci accorgiamo invece che il corpo viaggia costantemente su una linea sottile tra vittima e carnefice. Chi attacca è anche attaccatǝ e poi attacca nuovamente. È lo stato fisico di vulnerabilità che connette i due lavori. Parliamo di permeabilità dei corpi, che sono attraversati, processano, ma non archiviano. Siamo noi i primi e le prime a esercitare controllo su di noi e per questo lo permettiamo anche allǝ altrǝ. Tendenzialmente, ciò che facciamo è vivere, nella società, anche la nostra identità come un prodotto, un prodotto capitalista. In Nobody cerco di svuotare e decolonizzare il corpo da ciò che gli è accaduto.

L’ho fatto con il desiderio di fare ciò che sentivo, liberamente, in questa condizione di costrizione. La società ti insegna a difenderti, non a denunciare le ingiustizie. 

Mi è tornato in mente che da piccolo guardavo il Tg e non sapevo cosa fosse. Pensavo: chi parla può dire ciò che vuole con il microfono. Come se esistesse un luogo deputato dove un giorno sarei potuto andare anche io a raccontare quelle ingiustizie. Era il mio gioco, lo chiamavo “microfono del mondo”.

Ecco, c’è stata questa scintilla, come avessi pensato che era arrivato il mio momento per parlare.

Com’è proseguito?

È cominciato un grande lavoro di ricerca. Ho poi deciso di condividere la mia ricerca con lə adolescenti e non era semplice, perché in quel momento non andavano a scuola. Ho scritto il progetto di residenze nelle scuole insieme a una sociologa, Mariella Popolla. Almeno due mesi, per ricercare le posture, i codici e i linguaggi che i nostri corpi hanno incorporato e incarnato dalla cultura della violenza e della prevaricazione. Mi sono chiesto quali sono gli immaginari attuali, cosa è violento e cosa non lo è. Grazie a un progetto della Lavanderia a vapore, dove lavoro da alcuni anni, un liceo ha sposato la mia idea ed è cominciato questo percorso, aperto dal mio coming out dove parlo per la prima volta delle violenze subite da adolescente. Un’azione che ho pensato incoraggiante, per me e per altrə. Abbiamo lavorato sulla costruzione di assemblee transfemministe per stare insieme e riconoscere nei nostri corpi: quali cose si stanno muovendo, che cosa non sto denunciando, cosa sto sopportando, o supportando, per definire cos’è il bullismo. E poi le pratiche del corpo e la richiesta di materiale. Vedrai come l’ultima scena del lavoro riproduce una serie di danze con posture che mi sono state offerte dallə ragazzə con cui ho lavorato. Questo è poi diventato un progetto a sé, abbiamo incontrato più di 700 adolescenti, anche a Bologna grazie alla rete di Teatro arcobaleno.

E sono nati due spettacoli dalla residenza al Mart.

Uno è quello che vedrete a Bologna, in cui decido di portare in scena ciò che per me è necessario, per aprire una riflessione collettiva sul corpo della protesta e sui residui della violenza, dove io ho composto le musiche, i testi, la coreografia. La sfera autobiografica è stata la scintilla, ma io in scena non parlo di me, non è la mia storia. 

Parallelamente è nata una durational performance che invece è tutta silenziosa, dura dalle due alle quattro ore, pensata per spazi museali. Si assiste a un corpo che fluisce nel rilasciare in tempo reale le gestualità che emergono, che appartengono sia alla vittima sia allǝ carnefice, passando dall’una all’altrǝ. Un lavoro dilatato, in cui il pubblico è vicinissimo. La volontà è quella di costruire una danza in cui oltre a guardare si richiama la possibilità di ascoltare un corpo che non ha parole ma sta parlando, una danza costruita come uno speech.

Capisco il lavoro di sublimazione che hai fatto per parlare a tuttə, la ricerca nelle scuole e cosa intendi quando dici che non è un lavoro autobiografico, ma come ti senti quando vai in scena con Nobody?

Sono coinvolto, non perché parla di me, ma perché riguarda noi tuttə. Mi interessa, in questo momento storico, portare in scena lo stato dei corpi attuale. Io non cerco le mie memorie sedimentate, sono le altre storie che sento, quelle che ho incontrato. In quello che faccio avverto l’emersione di quelle umanità. C’è commozione, ma è anche un atto liberatorio, mi sento distaccato, è una fiction che si appoggia alla realtà. È una chiamata a me e a chi guarda: quanto tempo dedichiamo ad ascoltare lo stato dei corpi? La chiamata è quella di creare una relazione empatica, ma non tra me e te. Se penso alle centinaia di lettere anonime che abbiamo raccolto Mariella e io da adolescenti che denunciavano le violenze subite… Sento la responsabilità di restituire una verità a quelle voci soffocate. Io mi sento disturbato, e penso sia necessario disturbare, è lo scopo dell’arte e io credo ancora nel suo potere trasformativo.