Era un giorno che mi piace ricordare autunnale, in un momento sospeso tra i primi anni delle medie, a metà tra passioni infantili e un’aggressiva azione della pubertà, sfogata già da tempo in orgasmi che solo da poco avevano assunto consistenza. Un pomeriggio tranquillo in una casa vuota, appoggiato al divano e con la tv accesa, mesi passati nei miei ricordi a consumare le pellicole dei Vhs di Panorama, religiosamente collezionati da una zia. Poco tempo prima, proprio con quella zia e il suo compagno, facemmo partire, su una pellicola più anonima di quelle che conoscevo e identificavo così bene, Una strega chiamata Elvira. Uno dei film più meravigliosamente trash che gli anni ‘80 abbiano prodotto e che diventò poi per me una pietra miliare. La prosperosa protagonista, interpretata da Cassandra Peterson, irruppe nello schermo scollacciata e piuttosto volgare, almeno agli occhi degli adulti lì presenti, che, nell’imbarazzo generale, fermarono la visione a meno di dieci minuti dall’inizio sostenendo arrossati che fossi troppo giovane per andare avanti. Proprio non capivo il punto. Sapevo bene a cosa si riferissero, ma l’avvenente protagonista non aveva esercitato su di me alcun fascino erotico, malgrado ne stessi apprezzando la personalità spregiudicata. Eppure, proprio in quell’autunnale pomeriggio solitario di non molto successivo, capii ironicamente sia i loro timori che la loro infondatezza.
Quel giorno scelsi L’esercito delle 12 scimmie. Tra una scena e l’altra di un film che ora ricordo a malapena comparve una delle poche immagini rimaste scolpite nella mia coscienza: Bruce Willis, arrestato, viene spogliato, condotto a una doccia e lavato da due inservienti. Così, lui perfettamente di spalle e con le mani appoggiate al muro di fronte, mi trovai a guardargli il culo. Fusa a quella visione ricordo bene l’erezione che mi provocò, e da lì capii. «Mi piacciono gli uomini», mi dissi «Sono gay!». Fu un’innocente scoperta solitaria che ebbe la forza di ricollegare i puntini di tutto un immaginario che già faceva parte di me. Mi ricordò qualcosa dapprima senza forma, ma poi, toccandomi, dallo schermo e dalla mia mente riemersero nitide consapevolezze: Nicola, il bambino con cui volevo sempre giocare all’asilo, la cui vicinanza mi appagava angelicamente per la bellezza dei suoi capelli biondi e degli occhi azzurri; Alessandro, il ragazzo che scelsi come vicino di banco in prima elementare per la dolcezza del suo sguardo nocciola; e più di recente altri corpi, altre persone, che molto meno platonicamente avevano catturato il mio sguardo, tra le pieghe flessuose della loro pubertà che non smettevo mai di sbirciare.
Non vissi alcun giudizio, alcun dramma, mi sentii anzi più completo, più a mio agio e forte di una consapevolezza che mi aveva arricchito. In questo, che ancora il mio cuore rivendica come una fortuna, non so cosa giocò a favore di un’accettazione così immediata; non mancarono poi coming out più complessi, quelli fuori da me, ma che ormai, per quanto spiacevoli, mi scivolarono addosso proprio perché il più importante era andato alla perfezione: quello con me stesso.
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