Però chiamiamolo col suo nome: unione civile
Paola e Francesca oggi dicono sì. Evviva Paola e Francesca, con buona pace di tutte noi lesbiche che per anni abbiamo fantasticato di essere al posto di Pascale.
Paola e Francesca diranno sì, ma contrariamente a quanto riportato dalla maggior parte della stampa nazionale il loro sì non sarà esattamente come quello che ci si scambia durante i matrimoni etero. Tutt’altro.
In Italia, infatti, non importa chiamarsi Imma, Eva, Paola, Matano o essere la ex di quello che si è definito il più grande statista della storia del Paese, se non sei eterosessuale, per quanto tu sia famos*, al matrimonio non hai diritto. Il matrimonio a noi frociə non spetta.
Ed è anche abbastanza inutile – oltre che frustrante o sinceramente anche abbastanza irritante – lasciarsi andare nella retorica che tanto ciò che conta è il sentimento alla base e non come lo si chiama e che, unione civile o matrimonio, basta che ci sia l’amore, perché sono cazzate. Grosse, gigantesche, enormi, cazzate.
Matrimonio e unioni civili non sono la stessa cosa. I nostri personalissimi don Rodrigo e i loro bravi travestiti da teocon e franchitiratori, da cangurotti pentastellati e affini, ce l’hanno detto a gran voce nel 2016 che per noi frociə questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai e i don Abbondio che li hanno succeduti non sembrano intenzionati a migliorare la situazione – fatto salvo chi, per mera propaganda, cerca di cavalcare l’onda raccogliendo firme per un referendum sul matrimonio egualitario che al momento potrebbe essere più dannifico che altro (il referendum, non il matrimonio).
Un consiglio di lettura sulla notizia del giorno è l’articolo di Elena Tebano sul CorSera di oggi, primo luglio, intitolato Turci e Pascale, le nozze senza coming out e i diritti che mancano, che ben centra la questione fin dal titolo e che colpisce soprattutto in una chiosa: «È un atto sommessamente pubblico che dice al resto della società “noi siamo una coppia”. È il senso del matrimonio».
Facciamo un passo indietro e torniamo al punto: a eccezione del Tirreno nessun quotidiano ha usato “unione civile” nel titolo. Tutti gli altri quotidiani hanno optato per matrimonio e, eccezion fatta per D-Repubblica e Fatto Quotidiano, nessun giornale ha spiegato nell’articolo che ciò che nel titolo veniva descritto come matrimonio sarebbe stata in realtà un’unione civile: Il Messaggero, Repubblica, Corriere, FanPage, HuffingtonPost, La Stampa, La Nazione, Il Secolo XIX, Radio 105, Vanity Fair e tanti altri ancora.
Quello che può sembrare un errore anche in buona fede – non volendo pensare per una volta al titolo acchiappa click perché diciamolo, matrimonio è una parola più croccante di “unionecivile” – e come tale praticamente innocuo, può rivelarsi invece un grande nemico. Martellare con la parola matrimonio può rischiare di far passare il concetto che questo e le unioni civili siano di fatto la stessa cosa, che ci siano diritti ormai acquisiti e che le manifestazioni e le richieste della comunità LGBTQ+ siano meri capricci, quando noi sappiamo benissimo che non è così.
Il problema è spiegarlo a chi già nelle scorse ore ha iniziato a inondare di insulti le due spose, a chi in questo mese Pride ha continuato a spalare merda e omolesbobitransfobia sulla comunità impunemente – e che continuerà a farlo – e a chi, anche magari parzialmente alleato, si persuaderà che comunque le unioni civili e il matrimonio siano sovrapponibili e quindi possiamo accontentarci, con buona pace anche dell’obbligo di fedeltà e soprattutto dei figli e delle figlie che la legge Cirinnà ha abbandonato al proprio destino.
È seccante citare Moretti ogni volta, ma le parole sono davvero importanti e utilizzare “matrimonio” crea un cortocircuito pericoloso nel modo in cui viene restituita una notizia e nel modo in cui poi questa viene viene recepita da un pubblico che spesso si ferma solo al titolo.
E in questo errore – condito da una dose di retorica abbastanza impegnativa per essere venerdì – cade anche Massimo Gramellini: «Che la ex compagna di un maschio all’antica si sposasse con una donna era inimmaginabile fino a qualche tempo fa. E non solo perché non esisteva ancora una legge che consentisse a Paola Turci e Francesca Pascale di dirsi quel che si diranno domani davanti al sindaco di Montalcino». Nella riga successiva si dà del boomer da solo, risparmiandoci in parte la fatica di fargli notare che da un giornalista navigato e conduttore di un programma televisivo che si intitola Le Parole aspettarsi che verifichi la differenza tra matrimonio e unione civile sia il minimo sindacale.
«Dante alla porta di Paola e Francesca
Fabrizio De André
Spia chi fa meglio di lui
Lì dietro si racconta un amore normale
Ma lui saprà poi renderlo tanto geniale».
Dante siamo noi. È la stampa. È chi si emoziona. È chi si indigna «e che comunque seppelliremo».
A Paola e Francesca e a tutt* l* promess* spos* facciamo i nostri auguri, sperando che la comunità tutta sia forte abbastanza da scacciare via Rodrigo, bravi, Innominato e don Abbondio.
Auguri Paola e Francesca.
Ma sappiate che tanto, oggi, pioverà.
E chi negli anni nelle manifestazioni c’è stato sa perché, e sa che non è una gufata.
Perseguitaci