in collaborazione con Lesbiche Bologna
Dal 14 al 18 aprile ad Agape si è tenuta la 21esima edizione del Campo lesbico, il cui tema Genealogie lesbiche: comunità ribelli e politiche del desiderio racchiude già il senso profondo di questa esperienza, la continuità con il passato e al contempo il ribelle desiderio di trasformazione.
Come è cambiato il campo lesbico di Agape in questi vent’anni? Quali persone e quali immaginari lo hanno attraversato e trasformato? Quali novità ci porta il campo di quest’anno?
Lo abbiamo domandato a due componenti della staff: Lucia, che di campi ne ha già vissuti nove come staffista, e Meth, alla sua seconda esperienza di campo, la prima all’interno della staff.
A entrambe chiediamo cosa le abbia portate al campo lesbico la prima volta e come sia stata poi la loro esperienza di campiste e di staffiste.
Lucia: «Il mio primo campo lesbico risale al 2013 e fu contemporaneamente il mio battesimo nella staff. All’epoca mi occupavo già di formazione e counseling su tematiche di genere e tramite un’amica che era nella staff fui invitata a farne parte e a tenere un laboratorio di crescita personale e di gruppo basata sul lesbismo. Si trattava di condividere le diverse esistenze lesbiche, dal coming out alle relazioni con la famiglia e la comunità lesbica, fino ai diversi modi di concepirsi in quanto lesbiche. Già in questa prima esperienza emergeva ciò che ha sempre caratterizzato questo campo, che, sebbene nel nome possa suggerire un’idea monolitica e identitaria della soggettività lesbica, in realtà porta alla luce molteplici esperienze e posizionamenti. All’interno della parola “lesbica” e della sua comunità emergevano differenze e consonanze che mettevano in discussione il senso profondo di comunità lesbica: una somma di singole individualità? Una rete? Un insieme di relazioni? Inoltre l’idea di intersezionalità era forte già allora».
Meth: «La mia prima volta al campo lesbico l’ho sperimentata con una formula mista (all’epoca Meth era campista e campolavorista, ndr), è stata un’esperienza molto faticosa, ma completa e ricca. Mi ci aveva portato un forte bisogno di famiglia e di comunità. Ancora oggi per molte persone l’essere lesbica può significare non avere l’appoggio di una famiglia che ti guidi e ti sostenga; sebbene io abbia molte relazioni con lesbiche mie coetanee, avvertivo l’esigenza di confrontarmi anche con persone di altre età, che vivessero fasi diverse della loro vita. Quando quest’anno mi hanno chiesto di entrare nella staff, per un attimo ho sofferto della cosiddetta sindrome dell’impostore, per la mia giovane età e per essere solo alla mia seconda esperienza nel campo. Poi è arrivata anche Giulia, 22 anni, anche lei alla sua seconda esperienza nel campo e alla prima nella staff; infine il resto della staff è stato estremamente accogliente con noi e mi sono resa conto che l’intergenerazionalità è proprio ciò che caratterizza e arricchisce questo gruppo. Da questa idea è nato anche il titolo del campo di quest’anno: abbiamo scelto il termine genealogie, e non generazioni, proprio per mettere in luce le somiglianze anziché le differenze, per sottolineare come le nostre esperienze ci accomunino anziché dividerci».
Come è cambiato, se è cambiato, il campo dai suoi inizi a oggi?
Lucia: «Ciò che non è cambiato sono le metodologie, che da sempre sono basate su modalità partecipative ed esperienziali, che alternano sessioni plenarie ad attività in piccoli gruppi e laboratori. Il punto di forza del campo è sempre stato il suo essere residenziale, il che permette un’esperienza immersiva, che va oltre le attività e i contenuti proposti, coniugando pratica politica e socialità. Anche i temi centrali sono rimasti gli stessi: l’immaginario lesbico, il partire da sé, le reti relazionali, sentimentali e politiche, la corporeità, l’erotismo, il pensiero e le pratiche politiche.
Ciò che invece è in parte cambiato è l’approccio delle persone che lo frequentano. Il campo nasce come esigenza separatista delle lesbiche dall’esperienza più ampia del femminismo (ad Agape esisteva già da diversi anni il campo femminista) e in questo ripercorre la storia del separatismo lesbico in Italia. In tal senso, all’inizio era forte il bisogno di trovare uno spazio di autodeterminazione all’interno della propria comunità, in cui potersi nominare lesbiche e superare l’invisibilità. Molte persone venivano da esperienze veramente pesanti di negazione dei propri diritti, delle proprie esistenze, e c’era quindi una forte esigenza e propensione a rimarcare il proprio lesbismo. Di conseguenza il separatismo era molto netto e rivendicato, ad esempio rispetto alla presenza maschile dei residenti o campolavoristi di Agape. Oggi questa esigenza si sente meno, soprattutto tra le generazioni più giovani, per le quali il nominarsi lesbica non rappresenta più uno spauracchio e quindi è meno forte il bisogno di identificarsi, sebbene rappresenti sempre una rivendicazione importante. Al contempo, nel campo è maturata anche una maggiore apertura verso soggettività differenti, come persone trans (donne trans che si identificano come lesbiche o uomini trans), non binary, ovviamente donne bisessuali, ma anche eterosessuali interessate alle tematiche lesbiche. Una forma di separatismo solidale, talvolta aperto anche ai membri maschili della comunità di Agape, che sono invitati ad alcune iniziative del campo lesbico».
Meth: «È vero che per le lesbiche della mia generazione è più facile trovare luoghi dove riconoscersi e nominarsi, soprattutto nelle grandi città; però io noto come sia ancora molto forte, anche tra le giovani, l’esigenza di definirsi all’interno di una categoria. Oggi le definizioni si sono addirittura moltiplicate ed esistono molte più sfumature, che vanno di pari passo con l’aumento del lessico LGBTQI+, a indicare questo bisogno di categorizzarsi. Inoltre questi ultimi anni di pandemia, guerra, decadentismo, scarse possibilità lavorative, hanno moltiplicato il bisogno di trovare comunità di riferimento e in cui identificarsi»
La presenza di ragazze così giovani nella staff c’è sempre stata o è una novità di quest’anno? La scelta è nata dalla necessità di colmare una distanza tra le generazioni?
Lucia: «Nel campo c’è sempre stata una grande eterogeneità dal punto di vista anagrafico, le partecipanti vanno dai 20 ai 70 anni e quindi abbiamo sempre lavorato per avere una staff intergenerazionale, così che tutte si potessero sentire rappresentate. Ci sono sempre state ragazze giovani, anche se forse non così giovani come quest’anno. L’eterogeneità riguarda anche altri ambiti, come la provenienza geografica, la classe sociale e l’esperienza politica. Al campo partecipano sia lesbiche molto strutturate e con un passato/presente importante di attivismo, sia altre che non hanno mai preso parte a contesti collettivi. E questo contrasto, sebbene possa comportare qualche difficoltà nel concepire un programma adatto a tutte, genera anche una grande ricchezza di esperienze e una contaminazione reciproca molto positiva».
Meth: «Io noto alcune differenze tra lesbiche delle diverse generazioni nell’approccio al lesbismo, ad esempio nel rapporto tra essere lesbica ed essere donna e nel marcare una distinzione tra identità di genere e orientamento sessuale. Nonostante la maggiore fluidità all’interno delle due categorie, le lesbiche più giovani hanno una tendenza a sottolineare questa distinzione, basata in gran parte su evidenze biologiche. Io tuttavia mi trovo più vicina alla posizione delle lesbiche della generazione precedente e, sulla scia di Wittig e di presupposti più filosofici che scientifici, ritengo che essere donna rappresenti solo un costrutto sociale e che la distinzione tra identità di genere e orientamento sessuale non abbia senso di esistere. Altre differenze possono esistere nel linguaggio, ad esempio nel concetto di queer che alcune ritengono inutile perché già racchiuso nella definizione di lesbica. Rispetto all’anno scorso, quest’anno anche alcune relatrici delle plenarie erano molto giovani e questo per me è molto importante. Sebbene ad Agape la modalità prevalente sia quella orizzontale, nei momenti delle plenarie ci sono persone che parlano e altre che ascoltano, ed è importante che queste ultime possano identificarsi in chi parla, sia nei contenuti che nel linguaggio».
Potete descrivere in poche parole il campo di quest’anno?
Meth: «Equilibrio tra tradizione e innovazione, che rappresenta la base di ogni impresa di successo!».
Lucia: «Con la parola “genealogie” rappresentiamo i fili che ci uniscono, le affinità a livello di pensiero e contenuti, per riconoscerci non solo come soggettività oppressa, ma come rete relazionale con contenuti e pratiche condivise; il tutto in un percorso che non sia statico, ma, appunto ribelle e trasformativo. Infine “politiche del desiderio” perché proprio il desiderio, non solo in senso erotico, ma anche come desiderio di sé e della propria comunità, è ciò che ha mosso chi ha deciso ventun anni fa di fondare il campo lesbico».
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