A TU PER TU CON VERONICA LUCCHESI E CON IL FEMMINILE PLURALE DEL GRUPPO LA RAPPRESENTANTE DI LISTA
La prima cosa che colpisce parlando con Veronica Lucchesi, voce e uno dei sei volti della Rappresentante di lista, è la naturalezza con la quale passa dall’io al noi. Non è un errore, non è indice di confusione. Tutt’altro. È piuttosto un segnale chiaro e forte di una delle maggiori peculiarità di quello che La rappresentante di lista è, sono: un femminile plurale, un personaggio composto da innumerevoli anime, storie, volti, corpi e soprattutto voci.
La rappresentante di lista è forse la band indie del momento. Nata dall’incontro tra Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, nel giro di un lustro è passata dai palchi dei piccoli club a quello di Sanremo, come featuring di Rancore nella serata dei duetti. Ora, con il nuovo tour toccherà le maggiori città italiane: un tour che già si annuncia quasi sold out, con date – come quelle di Roma e di Bologna – che hanno reso necessario un bis. Una band che non è solo una band, ma è allo stesso tempo compagnia teatrale e performance. Musica e teatro. Improvvisazione e arrangiamenti spiazzanti. Testi evocativi. A volte apparentemente nonsense, ma mai banali. E delle canzoni che hanno spesso come protagoniste le donne.
NB: Come per moltissim* artist* anche il tour de La Rappresentante di Lista – che proprio questo weekend avrebbe dovuto prendere il via – è stato sospeso in ottemperanza dell’ordinanza che fino al 3 aprile mette in pausa concerti e spettacoli per l’emergenza legata al covid-19. Nell’augurio che torni presto la normalità, vi rimandiamo ai social della band per gli aggiornamenti sulle nuove date.
Rompiamo il ghiaccio con due domande banali: cosa si prova a salire sul palco dell’Ariston?
Diciamo che è stato interessante entrare dentro il teatro Ariston, ritrovarselo davanti, vedere la scritta “Sanremo 2020” e notare quanto il palco sembri più grande da casa, dalla televisione. Palco e platea sono ravvicinati, questa vicinanza rende tutto più intimo. Una volta salita sul palco, mi sono resa conto che, se riesci a trovare appigli utili come per me il microfono o per Dario la chitarra, riesci a mettere in pratica quello che conosci bene: è il tuo mestiere. Con emotività e grande adrenalina. Ho scoperto che erano 13 milioni i telespettatori quella sera e ricordo che avevo la ridarella fino a un attimo prima di essere inquadrata. Sono stati divertenti anche i preparativi: i tecnici, le sarte, le truccatrici e tutti quelli che ruotano intorno al palcoscenico del Festival sono stati veramente gentili e di sostegno. Ci hanno coccolato.
E ora la seconda domanda banale: ti è piaciuto come Sorrentino ha inserito Questo corpo nella colonna sonora di The New Pope?
The New Pope è stato un grandissimo colpo al cuore, quando ce l’hanno detto siamo letteralmente caduti dalle sedie per l’emozione. Per me è stato bello pensare che Sorrentino abbia fatto parlare i due personaggi attraverso le parole della canzone. Sono solo corpo in quel momento, parlano attraverso gli sguardi, si avvicinano e si toccano le mani. La canzone traduce il codice dei movimenti. La chiusura della scena, quando uno dei personaggi si avvicina a prendere i biscotti e l’altro gli dà un colpo dicendo «Non li tocchi, sono di Dio» è stata geniale.
La vigilia del Festival di quest’anno è stata accompagnata dalle polemiche per le dichiarazioni di Amadeus, in Italia – e soprattutto nel mondo della musica – abbiamo un problema di sessismo? Qual è il ruolo della donna?
Quello che è successo quest’anno al Festival di Sanremo è stato, né più né meno, show, spettacolo e necessità di appigliarsi ad altro oltre che alla musica per creare audience. È un Festival che ha tentato di accontentare tutte le sfaccettature dei gusti degli italiani: c’era veramente un ventaglio di possibilità incredibile. Da quella che faceva impazzire i ragazzi e ragazze, alla musica di mia nonna con Al Bano e Romina; un po’ di indipendenti e quelli che fanno la scenata in diretta… Anche se era tutto verosimile. Poi si alzano polemiche per un problema che di fatto esiste: ruoli, donne, mondo del lavoro e dello spettacolo.
«Qual è il ruolo della donna?» è sempre una domanda strana per me. Tutti e nessuno! ll ruolo, lo spazio, il tempo della donna dovrebbe essere lei, come chiunque, a capirlo, a sceglierlo secondo quelle che sono le sue necessità, quelli che sono i desideri per se stessa e in ascolto dell’altro (altro da sé, degli altri).
Credo piuttosto che il problema stia alla base e si è visto anche negli interventi dei giornalisti alla ormai celeberrima conferenza stampa: perché nessuno ha chiesto alle donne che avrebbero fatto da presentatrici insieme ad Amadeus perché hanno detto di sì? Perché non hanno chiesto a loro perché hanno scelto di esserci? Perché le domande le hanno fatte solo ad Amadeus? Lasciare rispondere lui è come quando non rispondiamo in prima persona: lasciamo spazio alla libera interpretazione, lasciamo che si costruiscano muri che poi allontanano la comunicazione. Perché se sono presente e ascolto qualcuno al mio fianco dare una risposta del genere non mi introduco? Non tento di rispondere e provo a dire la mia? Probabilmente le sorti di quella conversazione sarebbero potute cambiare, ma come dicevo all’inizio, questo è spettacolo.
Nei giorni precedenti al Festival c’è stato un botta e risposta tra Levante e Michela Murgia in merito alle quote rosa. Che ne pensate delle quote rosa?
Dalla mia posso dirti che oggi è difficile poter parlare di meritocrazia . È un termine smembrato, è stato tradito e completamente inglobato dal sistema. È difficile parlare di un argomento senza un confronto diretto con Levante o Murgia, senza chiedere loro cosa avrebbero voluto dire: un dialogo è bello se ci si guarda in faccia e si avvertono le sensazioni dell’altro, le sue energie. Parlandone a posteriori mi sembra ridicolo fare un discorso sulla meritocrazia, come dicevo poc’anzi, posta in questi termini non ha alcun valore. Delle quote rosa è chiaro che anch’io vorrei che non ne dovessimo parlare, che non ce ne fosse bisogno, ma nella nostra società, dove siamo lontani dalla parità retributiva e dalla parità sotto molti altri aspetti, allora ben venga parlarne. Alle volte, determinati meccanismi vanno portati con una forzatura per essere di rottura e rompere un meccanismo malato e vizioso. Bisogna insistere, resistere, esistere.
In un’intervista rilasciata a Il Manifesto hai affermato che la donna è il vero corpo politico della musica. Puoi spiegarcelo?
Mi viene in mente un discorso che fece Miyazaki rispetto alla scelta delle sue protagoniste femminili in età di passaggio. Secondo lui queste giovani donne sono libere di essere, libere da qualsiasi schema e dagli stereotipi dei film di avventura e dalla definizione dell’eroe maschile. Siamo abituati all’eroe, al patriota, al guerriero. La nostra narrativa è ricchissima di personaggi maschili che portano avanti l’epica e la nostra storia. Miyazaki diceva di affidarsi a queste eroine in quanto donne forti e risolute che non subiscono passivamente il loro destino, ma agiscono in prima persona. Quando diventano eroine non c’è nessuno schema a imbrigliarle, nessun limite alla fantasia.
Credo che il corpo femminile, un corpo che è anche sofferenza, possa essere il primo motore per risollevarsi da una crisi: è salvifico e ci fa scoprire cosa siamo in grado di fare. Il corpo delle donne è un corpo che oggi subisce ancora violenza e pregiudizio e il suo canto, quando arriva, quando ha la capacità di esprimersi, può veramente cambiare qualcosa: può essere volto, carne e ossa di una rivoluzione.
In una vecchia intervista che per l’esperienza di Bu Bu Suite hai descritto La Rappresentante di Lista come un’entità femminile. È ancora così? E se sì, cosa vuol dire?
Noi l’abbiamo definita anche “plurale femminile” e il nostro è un nome che ancora oggi sbagliano: “La rappresentante”, “iI Rappresentante”, “i la Rappresentante”. Invece no, è proprio “La rappresentante di lista”, un ruolo femminile che abbiamo scelto un po’ per gioco al momento della sua nascita, ma che ha acquisito valore nel tempo. È ancora una voce femminile, ma è una voce fatta di tante parti.
È un contenitore, un progetto che ha la necessità di raccogliere le diverse personalità e sfaccettature dell’animo umano. Siamo sei: sei voci differenti che alimentano questo punto di vista. È una voce femminile perché oggi la voce femminile è un punto di vista diverso. È qualcosa che può farti cogliere quei dettagli della vita che non avevi previsto. Può scardinare gli stereotipi e può far ritrovare un certo gusto per determinate parole che hanno perso il loro valore: un po’ come una necessità di riqualificare dei termini che sono stati smembrati.
Tipo?
Penso a “pace”, a “utopia”, a “futuro”. Penso a slogan come “No alla guerra”, “Rivoluzione”. Sono termini che sembrano vecchi e stantii, come se non ce ne fosse più bisogno. Invece dovrebbero ancora essere parole chiave.
Penso alla parola “meraviglia”. In questo momento, al tempo del Corona virus, vorrei smetterla di proteggermi dall’urto del mondo e andarlo a toccare.
C’è un libro bellissimo di due filosofi, Maura Gangitano e Andrea Colamedici di Tlon, che si chiama Lezioni di meraviglia. Loro dicono: «Quello che ci serve è toccare il mondo, quando tocco mi lascio toccare e scopro. E a furia di toccare, qualcosa mi resterà tra le mani». Penso sia potentissimo.
Nelle vostre canzoni le donne sono sempre al centro del racconto. Qual è il racconto al quale vi è piaciuto di più dare voce con le vostre canzoni? C’è una donna in particolare, tra le protagoniste di cui avete cantato, che ha toccato particolarmente le vostre corde, le vostre emozioni?
Mi piacciono tutte le canzoni di Go Go Diva, però nel corso degli anni mi è piaciuto moltissimo dare voce a una canzone in particolare e alla sua protagonista: è Per la via di casa. Sono tanti anni che non la canto, ma mi piaceva. Era il racconto di una donna che viveva in casa col padre e che fosse il padre lo si scopriva solo alla fine quando lo chiamava per nome [«Che sapore ha?/Devi saperlo se vivi con me papà», ndR]. Fino a quel momento si sarebbe potuto pensare che parlasse da sola o a un uomo, magari il compagno. La cosa che mi spiazzava, nella canzone, era che lei rivolgesse al padre queste parole: «Mi ritrovo qui felice/ Mentre i tuoi occhi mi guardano triste»: la trovo una cosa devastante. Era come se passando per il corridoio di casa, avesse trovato una foto di lei e del padre: lei sorridente verso la camera e lui che la guarda come si guarda una persona infelice. Veramente infelice.
Perché hai smesso di cantarla?
Perché passati tanti anni, altri dischi, un po’ di cose si perdono. Però era molto bella. Poi c’è Giovane femmina, è una della mie preferite.
Lo sai che nel mondo LGBT+ sei ormai quasi un’icona?
Non so se siamo delle icone [ride, ndr].
Sì, lo stai diventando. Vi siete definiti una band queer. Giorgio Canali, invece, vi ha definiti “obliqui”. Parliamone.
Credo che la prima volta che ci siamo avvicinati al termine queer in modo concreto sia stato quando abbiamo partecipato al Sicilian Queer Film Festival, un festival molto importante e che abbiamo subito amato per la sua trasversalità.
Ci ha fatto cogliere aspetti e dettagli di pellicole impreviste. Era un cinema che non avevo mai visto. Qui abbiamo incontrato la parola queer legata alla sfera della sessualità e siamo andati a vedere le sue declinazioni. Nelle definizioni abbiamo provato, per gioco, a sostituire i termini di riferimento all’identità sessuale con quelli della musica: è uscita una non-definizione perfetta.
Non abbiamo bisogno di una categorizzazione precisa, non ci piace averne, ci piace essere liberi di pescare nelle possibilità della musica. Questa non-definizione ci lascia liberi di poter vagare, di essere fluidi, obliqui, trasversali, strambi, oltre il genere: è perfetta per noi, queer pop music.
Queer pop music?
Siamo sempre stati convinti di fare musica pop, adatta a orecchie diverse. Una musica che non fosse eccessivamente complicata e con vari strati di lettura. Posso fermarmi alla superficie e fruire della canzone così com’è. Oppure posso andare a scoprire i vari livelli e trovare sempre significati diversi, posso scoprire il mondo dentro al mondo che sto raccontando. Questo è quello che abbiamo tentato di fare e di portare avanti con la nostra ricerca: non di porci limiti, ma di muoverci come acqua che fluisce dove ci sono mura spesse, che cerca di arrivare lontano perché lontano è il luogo dove non esistono regole. Dove si può osare. È fantasia, utopia.
La prima volta che ti ho vista dal vivo era l’inverno del 2016, a Bologna, in un piccolo club – il Cortile Cafè – dove possono entrare appena alcune decine di persone. Ora hai dovuto raddoppiare molte date per i sold out. Te lo aspettavi?
No, nel senso che per come navigo io, a vista, un passo alla volta, non l’avrei detto. O forse sì, ma nella mia fantasia. Nei miei sogni potevo pensare che tantissime persone avrebbero ascoltato quello che facciamo. Evidentemente è successo qualcosa. Qualcuno ha voglia di stare insieme a noi mentre noi raccontiamo una storia. Qualcuno sente di farne parte. Qualcuno ci insegnerà altri significati.
Un’ultima domanda: si può fare politica con una canzone d’amore?
Certo e ne sono pienamente convinta. Go Go Diva è un disco pieno di canzoni d’amore. E lo abbiamo voluto fortemente questo amore. Pensiamo a come da sempre si racconta l’amore: è una via molto semplice, lo possiamo riconoscere. L’amore ha una forza che risveglia in noi sensazioni sovrannaturali e in molti riusciamo a percepirla. L’amore è un momento di grande possibilità. Fracassiamo muri per questo amore. Lo sappiamo chiamare. A volte però non sappiamo chiamare gli altri sentimenti, gli altri desideri e allora l’amore è quello che arriva ad aiutarti a comprendere meglio. A volte l’amore raccontato in una canzone è solo il primo strato e ti arriva subito. Successivamente, gli altri livelli di significato ti racconteranno che dietro a quell’amore c’è una scelta politica, sociale, umana, fatta di donne e di uomini, di natura o una scelta istintiva, animale. Fare politica dovrebbe essere una scelta d’amore.
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