In uno studio del 1998 dedicato all’identità lesbica e al suo spazio culturale, Sally Munt dedica un intero capitolo al corpo butch, che definisce come «la forma pubblicamente riconoscibile del lesbismo» nelle nostre società. 

Noi femme siamo la forma pubblicamente irriconoscibile del lesbismo nella nostra società. 

L’invisibilità lesbica è una conseguenza della misoginia, ma i corpi femme vivono una doppia invisibilizzazione – triplice? Esponenziale? Non siamo sicure della proporzione e delle dosi da applicare a questa ricetta – non solo nella società ma spesso anche all’interno delle nostre comunità.

Come ricostruisce Maya De Leo, il binomio butch/femme affonda le sue radici storiche proprio nella necessità strategica di «passare», trovando quindi nell’invisibilità una forma di protezione dalla violenza lesbotransfobica della polizia. La femme è una strategia. Una strategia di risposta al contesto eteropatriarcale in cui viviamo, uno strumento di difesa ma anche di riappropriazione e di costruzione identitaria. Le identità queer, le identità strategiche per la sopravvivenza, sono molto diverse dalle identità immutabili e oppressive dell’eteropatriarcato, ma anche dalle rivendicazioni identitarie odierne. È ancora Maya De Leo a ricostruire il percorso di cristallizzazione dei ruoli di genere operato dall’occidente positivista, mostrando come il concetto di donna e uomo, di femminile e maschile, siano stati costruiti l’uno in contrapposizione all’altro: contenitori mutualmente escludenti che trovano nella differenza la propria identità. Ed è qui che esplode il binomio butch/femme, lasciando il posto a una moltiplicazione di identità, spazi di soggettivazione e possibilità di espressione. Perché butch e femme non si formano l’unə in contrapposizione all’altrə, ma al contrario si arricchiscono a vicenda. Essere femme non significa “non essere butch”, così come non è necessario essere assegnatǝ donne o identificarsi come tali per essere femme: le immaginiamo come interpretazioni/giochi altalenanti o ibride a più teste come nella serie tv Pose, scritta sulla scia del documentario Paris is burning, dove lə protagonistə sfilano interpretando ora una butch queen ora una femme queen, condividendo la performance tra donne trans nere, bianche, ispaniche e uomini gay e bisessuali.

Lə femme usano tutti i pronomi a cui potete pensare e sono prontə a inventarne di nuovi in caso di necessità, questo perché la femmeness non è un’identità rigida, ma una pratica di sperimentazione e di riappropriazione della femminilità. 

Lǝ femme rifiuta le regole, smantella la costruzione di ciò che una brava ragazzina deve fare e un ragazzino normale deve desiderare – ma mai praticare – per reinventare una femminilità al di fuori delle norme. Per questo nessunə femme è uguale all’altrə: Jackie Wang nella sua fanzine On Being Hard Femme, parte dall’esigua bibliografia femme, indipendente dalla butchness (ma come dice Wang stessa, «la novità di un termine lascia più spazio alla possibilità di giocarci»), e pensa che lə (hard)femme sia timidə e forte al tempo stesso, abbia lunghi sia i capelli che i peli sulle gambe e «non abbia bisogno di portare i pantaloni all’interno di una relazione, perché anche con un vestitino sa il fatto suo». 

Proprio all’interno delle nostre relazioni, la femmeness ha un ruolo centrale: al di là dell’estetica «è connessa al lavoro emotivo. Ha origine dall’energia che mettiamo nel mondo, nelle relazioni con l’ altra e nella cura che si ha nei loro confronti. È lasciare che una specifica forma di tenerezza/morbidezza [l’originale è tenderness, NdA] sia parte della tua identità». In questa specifica forma di tenerezza includiamo l’esercizio della vulnerabilità, la pratica dell’interdipendenza reciproca e il rifiuto dell’individualismo, il tempo dedicato a «far sedere» le persone che stanno davanti a noi per esprimere la propria emotività (sulla connessione tra aspettativa del lavoro di cura e femmeness e la femme fatigue che ne deriva, rimandiamo a questo articolo). Essere femme è poter scegliere la nostra personale femminilità ribaltandola costantemente, sovvertire i ruoli di genere all’interno dei quali siamo cresciutə e continuare comunque a coltivare la tenerezza come forma di resistenza. È  abbracciare l’idea che se il queer radar altrui non si attiva in nostra presenza, è la sua tecnologia che non funziona, non la nostra queerness iperbolica che vuole il pane, ma anche il rossetto.