IL SENSO PERDUTO DELLE PAROLE
Di questi tempi, il termine “cittadinanza” si accompagna, almeno in economia, alla parola “reddito”: il pensiero va all’omonimo provvedimento contenuto nella manovra economico-finanziaria per il 2019. Ma cos’è esattamente il reddito di cittadinanza e in che senso il governo fa un uso improprio del termine?
Per “reddito di cittadinanza” (l’espressione inglese corrispondente è basic income), si deve intendere “un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare”. È questa la definizione che ne dà il Basic Income Earth Network e che ne propone da una trentina d’anni l’applicazione su scala mondiale. Un’idea antica, affascinante, forse scandalosa – il reddito di cittadinanza verrebbe dato anche ai ricchi e ai fannulloni! – ma che non ha mai trovato applicazione. Unica eccezione l’Alaska, dove è in vigore da quasi un quarantennio un programma pubblico di redistribuzione dei rendimenti delle royalties petrolifere.
Nonostante sia stato periodicamente proposto da grandi studiosi e personalità politiche di diversa estrazione culturale nell’arco di almeno due secoli, nessuna nazione lo ha mai realizzato. Quali sono i motivi? Se ne possono individuare almeno tre: uno normativo, uno economico-finanziario e uno politico. La prima obiezione al basic income è quella avanzata dal maggiore filosofo politico del XX secolo, John Rawls, secondo il quale “non è giusto sussidiare i surfisti a tempo pieno delle spiagge di Malibù”. La seconda obiezione riguarda la pressione tributaria necessaria a finanziare un reddito di cittadinanza d’importo non trascurabile. Solo per fare un esempio: un trasferimento pari alla metà del Pil pro-capite e finanziato con un’imposta sul reddito richiederebbe un’aliquota media del 50%, di gran lunga superiore a quelle vigenti in qualsiasi sistema tributario. Il terzo motivo è politico e consiste nel cosiddetto “effetto magnete”: il paese che lo introducesse per primo incentiverebbe flussi migratori in entrata poiché offrirebbe ai neo-residenti la possibilità di godere, dopo alcuni anni, di una garanzia di reddito incondizionata.
Il fatto che in nessuna parte del mondo sia mai stato introdotto il reddito di cittadinanza non significa che in futuro non ci si possa incamminare su quella strada. Alcuni paesi (Finlandia, Olanda) lo stanno sperimentando da circa un biennio in forme più o meno estese e la valutazione di quegli esperimenti aiuterà a far maturare un dibattito serio ed empiricamente fondato sul tema.
Se questo è l’orizzonte che hanno di fronte i sistemi di welfare state più evoluti, la stessa cosa non si può dire di quello italiano, che continua a essere caratterizzato dal peso preponderante della spesa pensionistica e da una cronica sotto-dotazione di risorse per quella assistenziale. Solo nel 2017 è stato introdotto un istituto di contrasto della povertà assoluta, il Reddito di inclusione (Rei), analogo a quelli adottati dai principali partner europei e riconducibile a uno schema teorico fondato sulla condizionalità, come l’essere povero e disponibile a lavorare. Stando alle stime, il Rei costerebbe, a regime, 8-9 miliardi di euro annui: una cifra compatibile con i delicati equilibri di finanza pubblica e minore di quella (15 miliardi) del “Reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle. Un istituto, quest’ultimo, che solo impropriamente può fregiarsi di quel nome poiché, come il Rei, è riservato ai poveri ed è condizionato a obblighi molto stringenti, per esempio la partecipazione a programmi di formazione professionale e la ricerca di un lavoro. In questo sta la mistificazione del governo e in particolare del M5s, che di quella proposta ha fatto il proprio cavallo di battaglia fin dal 2013.
Di fronte all’ennesimo caso di Babele linguistica, ci si deve adoperare affinché il patrimonio più grande che possediamo, quello delle parole, non venga ulteriormente svilito.
pubblicato sul numero 40 della Falla – dicembre 2018
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