SGUARDI SU SESSUALITÀ E INCONTRI VIRTUALI NEL PRESENTE TECNOLOGICO
Con lo sviluppo della rete telematica si è amplificata la disponibilità di strumenti informativi e in questi anni si è molto riflettuto sul rapporto tra sistemi sociali e tecnologia dell’informazione e della comunicazione. Uno dei nodi più interessanti ha riguardato, a mio parere, le procedure attraverso le quali riuscire a immettere soggettività sociale anche nella progettazione e nella verifica dello sviluppo tecnologico.
Noi tutt* ci siamo res* conto che le tecnologie della comunicazione non costituiscono solo un settore trainante del sistema economico di un paese ma rappresentano l’insieme degli apparati attraverso i quali si modellano – e si modelleranno sempre più – le forme dello scambio e della partecipazione sociale influenzando, inevitabilmente, anche i sistemi di vita e di relazione tra le persone.
Da gay non nativo digitale, ma fruitore in età avanzata delle (nuove) tecnologie, mi è capitato più volte di pensare ai cambiamenti che, nella mia vita, hanno prodotto, ad esempio, le chat di incontri.
Un tempo, per incontrare qualcuno con cui fare sesso dovevo muovermi, uscire di casa e andare in qualche locale (pochi), oppure a battere: nei parchi, nei parcheggi o nei bagni pubblici.
Oggi quel modello di battuage non esiste quasi più e grazie alle nuove tecnologie tutto avviene comodamente a casa davanti al computer. Un nomadismo sessuale che inizia e si sviluppa stando fermi: la percezione visiva della penombra del parco è sostituita da una o più foto del profilo e la parola scritta è un elemento imposto se si vuole arrivare all’incontro, non foss’altro per definire il luogo e l’ora. Sulla chat è pressoché impossibile una relazione muta, poiché le parole assumono un ruolo decisivo di fronte alla staticità delle immagini. Può essere solo attraverso lo scritto, anche se scarno, che si forniscono o si chiedono informazioni utili a una decisione: «Lo incontro oppure no?».
Nel contesto delle chat, le parole sono importanti perché diventano lo strumento della partecipazione, della negoziazione e dell’eventuale materializzazione del desiderio. Non si tratta solo dello scambio che può avvenire con l’interlocutore di turno, ma anche delle parole usate nella descrizione del profilo, quelle che ti connotano e che vanno scelte con estrema oculatezza. Ad esempio, su Grindr, oltre ad altezza, peso, fisico, età, stato relazione, etnia ed altre ancora, ce ne sono alcune – inserite sotto la voce Salute sessuale – che possono drammatizzare o rassicurare una scelta: Negativo, Negativo, in PrEP, Sieropositivo, Sieropositivo, non rilevabile. Parole precise ma che, al tempo stesso, possono risultare ambivalenti se non si hanno strumenti adeguati per comprenderle, poiché i sinonimi e i contrari che le parole possono evocare sono imprevedibili: Sano, Non del tutto sano, Malato, Sicuro che non sia rilevabile?… Oppure, per alcuni, possono rimanere sigle incomprensibili.
Nella rete, la circolazione della parola e la sua stessa apparizione non sa che farsene della classica domanda: «Chi è che parla?». Dentro la rete essa si traduce con: «Cosa dice questa parola?», «Come può circolare?», «Chi può appropriarsene e servirsene?» In chat non sembra importante sapere chi scrive, basta un nickname e, anche se ha pubblicato qualche foto, la persona resta comunque anonima perché, in quel contesto, l’anonimato è una forma della comunicazione stessa.
L’anonimato di chi scrive è assunto come elemento della relazione tanto che anche chi è pubblicamente dichiarato usa un nickname e non il suo nome.
Ma fuori dalla rete, l’anonimato, ad esempio, delle persone che vivono con l’HIV è tutelato dalla legge 135/90 che fu una conquista importante proprio per dare forza a un principio la cui sola enunciazione non era sufficiente a contrastare le discriminazioni; e ancora oggi il richiamo a quella legge risulta utile nel contrastare la spinta culturale che vorrebbe invece rendere identificabili le persone portatrici di virus.
Ma allora perché, se nel mondo reale serve una legge che rafforzi il contrasto alle discriminazioni, in chat si ritiene che la dichiarazione del proprio stato sierologico possa essere un’informazione tanto utile da essere inserita nel proprio profilo? Intendiamoci, non voglio assolutamente sostenere che una persona non possa dirlo, se ritiene di farlo, ma mi chiedo perché lo si voglia inserire tra i dati del profilo come connotazione identitaria. A me pare che, così facendo, il virus prenda forma viva in parole che non consentono nessuna intermediazione, anzi, che rischiano di autorappresentarsi attraverso lo stigma con cui sono state connotate dal 1982 ad oggi. Io credo che la rivelazione del proprio stato di positività al virus HIV (disclosure) dovrebbe poter avvenire attraverso una mediazione sul significato delle parole e non sull’immaginario applicato da chi le legge.
Ma, dall’altra parte, capisco anche che l’anonimato della rete, assunto come forma di una relazione collettiva, potrebbe consentire di rendere esplicito un altro punto di vista, quello di chi rivendica il diritto di potersi presentare come persona che vive con l’HIV; e infatti sono sempre più frequenti le persone che nelle chat dichiarano la loro positività al virus e lo fanno aggiungendo dettagli importanti, ad esempio la non rilevabilità della carica virale o, in alcuni casi, dichiarandosi in PrEP per rendere più smussata un’informazione ritenuta altrimenti spigolosa. Purtroppo, però, lo fanno verso un pubblico che troppo spesso non capisce l’informazione. Utenti che usano l’anonimato per nascondere la propria ignoranza e che, nella maggior parte dei casi, continuano a separare dicotomicamente le persone che vivono con hiv da quelle hiv negative o presunte tali.
Di recente Zachary Zane, un attivista bisessuale che scrive per The Body, ha pubblicato un interessante articolo in cui denuncia il fatto che, incoraggiati dall’anonimato, molti uomini gay e bisessuali inviano messaggi su app di incontri che includono razzismo, body shaming e HIV shaming. L’autore propone poi la testimonianza di persone che hanno subito questi attacchi nel tentativo di suggerire alcune strategie per non uscirne troppo malconci. Ma si tratta di strategie soggettive che, da sole, non basteranno a modificare la cultura del contesto.
Vorrei chiarire che il confronto con il passato non deriva da una nostalgia per i tempi in cui andavo a battere; li ho vissuti per come si presentavano e cerco di vivere il presente per come si presenta, sulle chat. Pregiudizi, razzismo, body shaming e HIV shaming, anche se con nomi e forme diversi si praticavano anche nei parchi, nei parcheggi e nei bagni pubblici e per questo credo che, oggi come allora, ci sia bisogno di farsene carico e proporre una soggettività fatta non solo di sigle e di definizioni ma anche di esperienze che, per mutate condizioni sociali e ambientali, devono trovare spazio e narrazione all’interno di un nuovo modo di comunicare e di un nuovo linguaggio che in rete si presenti come figura della relazione e dello scambio. Una figura i cui principi regolativi sembrano disegnare nuovi compiti e responsabilità anche per le nostre azioni sociali, politiche, associative e sessuali, per tutelare la soggettività e combattere forme di stigmatizzazione, anche dentro la rete.
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