Una scia luminosa ha percorso le notti magiche del mondiale di calcio femminile, in quest’estate appena trascorsa. Alcune spettatrici devono ancora riprendersi da questa apparizione e guardano insistentemente le immagini delle calciatrici su Instagram, comprese le italiane, tutte #eterissime non dichiarate, tranne Linari e Giugliano.
Quella di luglio è stata la scia di una metafora. Calcio delle ragazze, un vero gioco di squadra, tra abilità tecnica, condivisione, capacità di interpretare i processi stocastici del divenire, fair play, esuberanza, leadership non dittatoriale o farlocca, di tutto, di più. Abbiamo anche visto una Megan Rapinoe ribellarsi a Trump non cantando l’inno nazionale Usa e chiedere in mondovisione equal pay e in generale uguaglianza per le donne di ogni luogo e colore. Un po’ difficile pensare a tutto questo come pinkwashing, nevvero. Rapinoe si è impossessata del discorso, non lo ha subito, non ha cercato un’inclusione anodina e senza rischi. In qualche modo ha segnato una strada nuova nel rapporto tra media e politica, come ha fatto Greta.
Cosa c’era prima di Rapinoe e di Alex Morgan, la sodale non convenzionale, che ha messo in crisi il mito cis Wasp (acronimo che sta per white, Anglo-Saxon, protestant, ndr)? Un branco di lupe di Abby Wambach (Mondadori, 2019) ci fa capire meglio un percorso che comincia già negli anni Novanta con la bomber Michelle Akers, considerata da Pelé una dei migliori 20 giocatori di tutte le epoche, maschi privilegiati inclusi.
Strano karma, quello di Abby, lesbica dichiarata, che ha vinto due medaglie olimpiche (Atene 2004 e Londra 2012) ma è stata in panchina per età ai Mondiali canadesi del 2015, che sono stati il primo atto della consacrazione del mito del calcio femminile nel mondo, pur essendo lei stessa il mito fondativo della squadra. Destino. Il testimone è passato a Rapinoe, che l’ha portato al massimo livello rappresentativo durante i mondiali francesi di quest’anno, in una consacrazione definitiva. Il calcio femminile è il primo sport femminista del mondo.
Abby, che ora gestisce corsi di leadership femminile, chiarisce comunque molto bene la sua vocazione alla formazione di nuove generazioni lottatrici, non solo nello sport, nel suo pamphlet sulle Lupe:
«La rivoluzione comincia con una convinzione condivisa e collettiva.
La convinzione del Branco è che la ristrettezza sia in realtà inesistente, una bugia. Che il potere e il successo non siano elementi finiti e che, quindi, una “dose” più grande per una donna non comporti che a un’altra ne spetti una più piccola. Crediamo che l’amore, la giustizia, il successo e il potere siano sconfinati e che debbano essere accessibili da parte di chiunque.
Le rivoluzioni si vincono grazie all’azione condivisa e collettiva.
Agiremo in nome di tutte noi.
Ci aiuteremo a vicenda. Ci correremo incontro. Ci indicheremo l’un l’altra. Insieme rivendicheremo gioia, successo e potere infiniti. Festeggeremo il successo di una donna considerandolo un successo collettivo di ogni donna».
Speriamo che, opportunamente variati secondo soggetti, contesti e territori, i sani principi del branco di lupe possano prevalere. Gioverebbe alle sorti del mondo che i maschi applicassero ai loro giochi sempre più tristi e devastanti i buoni consigli del manuale del coach James Kerr, ispirato ai rugbisti neozelandesi All Blacks, ovvero, semplicemente: «Niente teste di cazzo».
Perseguitaci