Io sono vecchio, ma non vecchissimo, e ho saputo tardi dell’esistenza di Milly: da piccolo non ricordo di averla sentita nominare e nemmeno di aver ascoltato una sua canzone. Dev’essere successo in modo inconsapevole. Tuttavia dev’essere successo, se – quando ho visitato casa mia per acquistarla – la prima cosa che ho fatto è stata prendere in mano un suo disco e commentare “toh, il professore ascolta Milly”, come se sia il professore che Milly fossero mie vecchie conoscenze. Non lo erano affatto: dell’uno e dell’altra avevo appena un’immagine nebulosa.
Il professore era l’uomo che mi avrebbe venduto casa, di lui sapevo solo che amava svernare in Marocco, e che tra i suoi dischi di lirica c’era, stranamente, un disco di Milly. Quanto bastava per non provare alcuno stupore nell’incontrarlo mesi dopo al bar di un vecchio locale gay di Bologna che ha sempre avuto qualche difficoltà a sollevarsi dallo squallore, ma che quell’anno aveva acquistato un che d’affascinante, soprattutto grazie a certi fasci di luce verde che gli davano l’aspetto di un acquario.
Gli feci visita una domenica pomeriggio: mi parlò della storia della casa, in cui aveva esercitato una puttana storica, finché non l’aveva acquistata un suo caro amico, morto giovanissimo e senza figli nel natale dell’anno prima e a quel punto la casa era stata rilevata da lui. Mi raccontò che quando era giovane per incontrare bastava andare a teatro o passeggiare per via Indipendenza e che tutto si era complicato con l’apertura dei locali, confermando le impressioni ricavate da una raccolta di lettere di omosessuali bolognesi durante il fascismo trovata per caso in biblioteca e che mi aveva aperto un mondo forse meno ingessato e più vivo di quello delle chat.
E finalmente parlammo di Milly, della sua voce pastosa, di quanto la venerasse e si fosse dannato per collezionarne i dischi. Una piemontese elegante, che aveva vissuto la rivista e i telefoni bianchi, aveva avuto una liaison col “re pederasta” ed era poi passata tra le grinfie di Strehler finendo per incarnare una certa Milano, ma che in tutto ciò aveva trovato il tempo di volatilizzarsi misteriosamente in America, riscuotere successo a Broadway, tornare altrettanto misteriosamente in Italia per diventare – suppongo inconsapevolmente – icona di un certo pubblico maschile e quindi svanire. Il professore l’ho rivisto giusto un’altra volta, seduto da solo al tavolo di un ristorante, elegantissimo, con una sciarpa bianca: è morto, ma a volte qualcuno telefona ancora a casa mia chiedendo di lui.
Di Milly so forse meno di allora e, anche se potrei sapere di più, preferisco di no. Mi bastano poche canzoni, una scena de Il Conformista di Bertolucci in cui è la perfetta madre degenere, e una vaga idea del suo aspetto. Continua a essere avvolta dall’oblio, ma a quanto pare certe personalità sono così potenti da riaffiorare anche quando non c’è nulla di concreto a sostenerle.
pubblicato sul numero 18 della Falla – ottobre 2016
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