PASSATO, FUTURO E PRESENTE DI UNA RIVENDICAZIONE
Quando nel 1999 uscì la serie televisiva Queer as Folk, seguita l’anno dopo dal suo remake statunitense, non si può certo dire che il termine “queer” fosse così diffuso anche in ambienti non anglosassoni, né tanto meno utilizzato con la frequenza di adesso nella comunità LGBT+. E questo aveva probabilmente a che fare con il significato letterale del termine, tendenzialmente negativo e associabile al nostro “frocio”; il titolo della serie, infatti, nasceva dall’espressione inglese “there’s nowt so queer as folk”, ovvero “non c’è nulla di così strano come la gente”.
Come si è arrivati quindi alla rivendicazione di un termine che sin dagli anni ‘50 veniva considerato fortemente dispregiativo? Innanzitutto con una pratica tipica della comunità LGBT+ di appropriarsi delle parole offensive e farne una propria bandiera, azione che per il termine “queer” iniziò già negli anni ‘80, proprio con l’obiettivo di trovare un termine inclusivo per tutte le persone. In seguito, negli anni ‘90, sulla scia degli studi del filosofo Michel Foucault, con la pubblicazione di Gender Trouble di Judith Butler e di Epistemology of the Closet di Eve Kosofsky Sedgwick, con la nascita della cosiddetta “teoria queer”.
Laddove gli studi gay e lesbici analizzavano in particolare il modo in cui un comportamento veniva definito “naturale” o “innaturale” rispetto al comportamento eterosessuale, la teoria queer arrivava ad ampliare il raggio di azione, comprendendo all’interno della propria riflessione qualsiasi attività o identità sessuale che ricadesse dentro le categorie di normativo e deviante.
Con questo nuovo modo di analizzare la società e il suo rapporto con l’identità sessuale degli individui, si andava a mettere in discussione la naturalità dell’identità di genere, dell’identità sessuale e degli atti sessuali di ciascuno/a, riconoscendole interamente o parzialmente come un costrutto sociale. La categorizzazione in entità socialmente assegnate, basate sulla divisione tra coloro che condividono un’usanza o stile di vita e coloro che non lo condividono, veniva totalmente rigettata.
Il termine di fatto era però andato a toccare diverse dimensioni dell’essere Lgbtqi, diventando sia un sinonimo di omosessuale sia una dichiarazione politica forte e decisa di non posizionamento proveniente dagli studi. Non può quindi sorprendere più di tanto il fatto che si sia andato a perdere il significato rivoluzionario e fortemente critico nei confronti della società a favore della ricerca di un vocabolo inclusivo e unico per la stessa comunità.
Quello che però può urtare ogni qualvolta lo si senta, utilizzato più come piacevole parola inglese con suono accattivante che come veicolo di potenti significati non binari e antinormativi, è che a snaturarlo sia proprio la comunità che in quella parola dovrebbe e potrebbe riconoscersi come movimento fluido, complesso e al di fuori degli schemi prestabiliti e fissi della nostra società.
Essere queer dovrebbe essere più di qualsiasi altra cosa una sfida al sistema eteronormativo, un modo di vedere il mondo caratterizzato dall’accettazione, tutelando chiunque si riveli “non convenzionale”; dovrebbe ricordarci di non pensare in maniera binaria, perché ci sono più di due componenti nette e distinte nelle persone, riconoscendo le nostre identità come mai statiche, con la possibilità di essere attratti da chiunque, senza badare troppo al genere o al sesso della persona.
Essere queer dovrebbe farci vedere il sesso in modo diverso rispetto all’atto puramente riproduttivo orientato al piacere maschile della società eteronormata, ma soprattutto dovrebbe stimolarci a cercare sempre e comunque un modo per essere il più inclusivi possibile, creando spazi in cui chiunque si possa sentire al sicuro e tutelato.
Queer come rivendicazione politica porta con sé un bagaglio culturale e una rivoluzione ancora da vivere, una decostruzione totale della società come la conosciamo, e per quanto il movimento Lgbtqi sicuramente stia lavorando nella stessa direzione, si fa ancora fatica ad associarlo a tutto questo. Forse sarebbe il caso di combattere per meritarsela, la parola queer, invece di andare a collezionarla come una qualsiasi altra etichetta. Perché quella “q” inserita nella sigla Lgbtqi o quel “queer party” in discoteca stanno a significare veramente poco, se dall’altra parte c’è un movimento che fatica ad abbandonare il binarismo, che ancora combatte misoginia, transfobia e bifobia interne, che tentenna nell’inclusione di categorie che non combaciano perfettamente con quanto conosciuto fino a prima.
pubblicato sul numero 28 della Falla, ottobre 2017
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