Ogni malattia o infezione è stata collegata a un immaginario nella storia dell’umanità: la peste e gli untori del XIV e del XVII secolo o la tisi, definita il mal sottile che affliggeva i poeti e le nobili signore nell’Ottocento. Per quanto riguarda HIV e AIDS, fin dalla sua comparsa nei primi anni ’80 del XX secolo, si è venuto a creare un alone di paura di fronte ad una “malattia” nuova, misteriosa, asintomatica nei suoi primi stadi e per di più contagiosa: un vero e proprio “terrore sociale”. Come molti ben sanno, i primi casi di HIV furono notati principalmente tra la popolazione gay (tanto da essere definita “peste gay” e “flagello di Dio contro gli omosessuali”), tra i tossicomani, i fedifraghi e le prostitute; questo ha fatto sì che essere sieropositivi significasse essere associati a una di queste categorie, socialmente non accettate in quanto outsider rispetto ai valori della società reaganiana e tatcheriana dell’epoca, borderliner, peccatori.
Quindi essere sieropositivi, per l’opinione comune dell’epoca, significava essersi meritati quella punizione per le proprie trasgressioni, l’infezione era l’espiazione di colpe inconfessabili e di perversioni. Questo, associato al fatto che l’HIV fosse contagiosa, ha creato nella società allontanamento, repulsione, discriminazione e stigma verso chi era affetto dall’AIDS.
Arrivando ad oggi si sono fatti grandi passi avanti sul piano delle conoscenze medico-scientifiche: essere sieropositivi oggi non significa essere dei “malati terminali”, bensì, nella maggior parte dei casi, avere uno status sierologico cronicizzato e continuare grazie alle terapie disponibili – e al preservativo – ad avere una vita sociale, lavorativa e sessuale serena. Sul piano individuale e sociale rimangono presenti tuttavia le discriminazioni subite/percepite, ovverosia l’insieme degli atteggiamenti negativi nei confronti di un gruppo di persone, e lo stigma, definibile come l’attribuzione di caratteri negativi, basati su un pregiudizio, a un gruppo di persone che comporta l’isolamento di queste dalla società: un marchio negativo in poche parole.
Discriminazione e stigma sono spesso sintomo di scarsa sensibilizzazione alla tematica e di limitata informazione medico-scientifica di base nelle masse; non per ultimo, a ciò hanno contribuito errate campagne di lotta all’AIDS (molti ricorderanno lo spot pubblicitario dei primi anno ’90 dove le persone con HIV venivano circondate – leggesi marchiate – con un alone viola). Nel 2015, a più di trent’anni da quando se ne è iniziato a parlare, tutto ciò che concerne AIDS e HIV è rimasto tabù e di conseguenza non se ne parla o se ne parla poco e male, nonostante viviamo in un mondo dove le informazioni sono ovunque.
Tra tanti esempi basta pensare alle chat per incontri gay, dove il tema dell’HIV quasi non esiste e molte persone sieropositive affermano di aver problemi nel dichiarare apertamente (qualora decidano di farlo) il loro status sierologico, allorché si trovano a dover affrontare l’argomento “sesso”, poiché temono di essere discriminate proprio in quanto sieropositive. Detto ciò nessuno impone di dichiarare la propria sieropositività, ma sarebbe auspicabile che una maggiore informazione corretta sulle modalità di contagio e prevenzione, nonché una sensibilità più umana, rendessero serene le scopate occasionali delle persone HIV+ che decidono di dichiararsi tali.
Questa scarsa/errata informazione, oltre a causare arretramento culturale e atteggiamenti discriminatori, fa sì che si alimenti un circolo vizioso che inizia col ritardare il momento del test e conduce all’interiorizzazione dello stigma. Nello specifico la società colpevolizza il soggetto sieropositivo, che a sua volta prova vergogna e colpevolezza per il proprio status, sente di essere “sporco” e si ritira nel silenzio e nell’ignoranza dove si ritrova a gestire questa sua nuova situazione da solo e senza supporto.
Come se ne esce? Bisogna rivedere l’atteggiamento sociale nei confronti delle persone sieropositive, le quali devono potersi integrare serenamente nel contesto sociale in cui vivono: è ora che una persona sieropositiva possa essere lavoratore, coniuge e genitore, avere amici e partner sessuali, senza essere discriminato in quanto sieropositivo. Una delle strade può essere una prima rete di supporto alle persone sieropositive (come per esempio possono essere le associazioni), un network di persone sieropositive – e non! – che, oltre a confrontare le proprie esperienze, si informa e informa: questo farebbe sì che una persona con HIV trovi da un lato un supporto morale e dall’altro delle informazioni sul proprio essere sieropositivo. Il passo successivo è che queste persone diventino una risorsa per la società; da un lato tramite il volontariato alla prevenzione, dall’altro diventando una fonte di educazione al rispetto e una fonte di informazioni, oltre che di storie personali che arricchiscono.
pubblicato sul numero 4 della Falla – aprile 2015
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