«Tu chi si? Vuò parlà a vita mij?» recita una canzone di Lele Blade su chi prende parola sui quartieri popolari napoletani. In qualche modo è ciò che noi froce diciamo al mondo cis-etero: non parlate dei nostri corpi, perché in qualche modo la sensazione comune è che sia sempre qualcun altro a parlare su di noi e per noi. Esiste una comune radice, ovvero l’assoggettamento di gruppi subalterni che pretendono di prendere parola sulla propria autodeterminazione e io parto da me: una frocia, ma anche terrona. Quando vivevo in Sicilia ero solo frocia, quando mi sono trasferit* a Bologna sono diventat* anche terrona, e ho cominciato a scorgere un lungo filo rosso fra un genere al margine della maschilità e un posizionamento geografico al margine della bianchezza di fronte allo sguardo nord centrico, che in qualche modo mi narrava come un confine fra Nord e Sud globale. Per godere dei pieni privilegi della maschilità basta giocare con la mia espressione di genere, così come per godere dei pieni privilegi della mia bianchezza basta tirar fuori la mia CIE e camuffare l’accento: il gioco è fatto, ma non del tutto. Quel non del tutto è ciò che mi permette di guardare contemporaneamente dentro e fuori del mio privilegio, quindi di metterlo in discussione. Si è palesata per me la necessità di affiancare due processi politici paralleli: a Bologna nel mio collettivo ho cominciato un processo di “smaschieramento” ma anche uno di “sbiancamento” a partire dai margini che politicamente mi definiscono. Il femminismo decoloniale, come sottolinea Ilenia Iengo, suggerisce che vi sia un legame indissolubile fra corpi e territori nella modalità in cui la modernità coloniale li ha costruiti e sfruttati. Leggere decolonialmente il corpo-territorio come quell’insieme di relazioni di interdipendenza fra spazio e corpo fisico significa quindi mettere al centro la lotta per l’esistenza al di fuori della sovradeterminazione sia dell’uno che dell’altro.
Per questo propongo un paradigma meridionalista queer per leggere diversi margini intrecciati come spazio di possibilità.

Mentre scrivo scorrono le allarmanti notizie del pericolo alluvione in Emilia Romagna a distanza di poche ore dal terremoto della zona flegrea, adiacente a dove mi trovo. L’antimeridionalismo si cela nelle opposte reazioni mediatiche: sull’Emilia Romagna si pone giustamente il focus sull’emergenza climatica, su Napoli sulla scomposta reazione della cittadinanza che si mobilita da mesi contro l’impreparazione a una tragedia annunciata.
Nessun* si azzarderebbe a fare pubblica ironia di fronte alla paura della popolazione romagnola che osserva il fiume ingrossarsi con paura, ma davanti a quella napoletana le battute sull’abusivismo edilizio e sul fatto che le persone potessero protestare la notte perché “tanto non lavorano” si sono sprecate. Di fronte a questa tragedia a due dimensioni viene da chiedersi perché abbiamo normalizzato la violenza mediatica anche di fronte alla tragedia in territori specifici.
A cosa ci aiuta in questo uno sguardo queer? A unire i puntini. Quante volte ci siamo sentit* dire che siamo esagerat*, isterich* nel denunciare le violenze che subiamo, rumoros* e incivili con le nostre manifestazioni come froce? L’omobilesbotransfobia non andrebbe combattuta a livello sistemico perché, ci dice l’uomo eterocis, non esisterebbe davvero, ed è possibile incontrare lo stesso meccanismo discorsivo davanti alle denunce sull’antimeridionalismo strutturale nel discorso della Nazione: noi terron* siamo esagerat*, ci lamentiamo sempre e siamo rumoros*. Sì, lo siamo, perché siamo stanch* di essere invisibili. Sia l* terron* che le froce (figuriamoci se entrambe le cose) condividono inoltre una narrazione: l’inciviltà. Ma cos’è la civiltà se non l’ordine ciseteropatriarcale, eurocentrico e borghese che pretende di disciplinare corpi e territori a vantaggio di un unico soggetto del potere? Ci rivendichiamo di essere incivili come froce e come terrone ma soprattutto come froce-terrone perché nella vostra civiltà non c’è spazio per noi e non c’è mai stato, è un gioco falsato per continuare a riprodurre meccanismi di sovradeterminazione. Non vogliamo semplicemente essere inclus* in una società che non ci prevede, in un modello di sviluppo che ci ha già decretat* come vittime sacrificabili (vedi Bagnoli, ILVA, petrolchimico siciliano) che poi ci fa riversare come forza-lavoro genderizzata a basso costo nelle città del Nord, ma vogliamo smontarlo alla radice, vogliamo autodeterminarci a partire dalle nostre istanze, rivendicazioni e desideri sui nostri corpi-territori. E come dice Maria Nazionale: Simmo nate cù duie destine/ Simm’ ‘a notte e simmo a matina/ Simme rose e simmo mspine/ Ma simmo ramo d”o stesso ciardino.
Immagine in evidenza: palermo.repubblica.it
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