«L’ira canta, dea» è l’incipit dell’Iliade, poema guerrafondaio che si somministra aə ragazzə fin dalla scuola media. L’ira travolgente e amara, però, è quella di un eroe sui generis, Achille, il compagno di Patroclo: i due formano una coppia omosessuale che Platone classifica forzatamente secondo categorie para-eteronormate – Achille, il giovane amato bottom; Patroclo, il più maturo amante top? – arricchita della compagnia di donne divine (la madre di Achille, Tetide) o straniere (le schiave come Briseide). Un consesso di diversity al quale, nel primo verso del poema, si aggiunge la Musa dell’epica, Calliope. Tramandato oralmente, da donne mature oltre che da rapsodi professionisti, il racconto dell’Iliade con l’amicizia particolare tra i due eroi ha acquisito valore formativo nel curriculum scolastico də buonə cittadinə.
Il ruolo delle donne nella trama del poema e nella sua trasmissione è innegabile; eppure di poetesse e scrittrici abbiamo poche tracce per il mondo greco-romano, segno che il canone bizantino e medievale, tradendo i poteri mnemonici delle Muse, ne ha operato una selezione. Questa impronta misogina, che non corrisponde all’effettivo accesso delle donne occidentali alla scrittura, ha influenzato le storie letterarie ottocentesche, fino alla manualistica attuale. Su queste scelte culturali – perché tali sono, in mancanza di un’ispirazione divina – hanno pesato numerosi luoghi comuni: che le donne scrivano male in assoluto, meno bene degli uomini o che non scrivano per niente; che le donne scrivano solo d’amore, in prima persona; che le donne pratichino pochi generi letterari, ossia lirica e romanzi sentimentali; che le donne debbano tacere e occuparsi delle cure domestiche anziché scrivere o leggere, altrimenti fanno la fine di Francesca da Rimini o Emma Bovary. Si capisce bene perché autrici come Elsa Morante o Natalia Ginzburg non si riconoscessero nella parola “scrittrice”, al femminile: definendosi “scrittore”, ciascuna di loro voleva dire al pubblico (e a editorə e recensorə): «io non sono quella roba lì, scrivo con la stessa dignità e sugli stessi temi su cui può scrivere un maschio». È una forte rivendicazione intellettuale che, con buona pace loro, suona femminista.
Da anni, se non da secoli, si discute del ruolo delle donne come scrittrici e della loro inclusione nella programmazione scolastica. Su quest’ultimo punto, per la verità, l’autonomia degli istituti e la libertà d’insegnamento hanno mandato in soffitta i programmi ministeriali, che non esistono più; dal 2010 ci sono delle Indicazioni nazionali del Ministero dell’Istruzione (oggi anche del Merito) che, per la secondaria di secondo grado citano, nell’ambito della letteratura italiana, la sola Elsa Morante – elencata tra “altri autori” integrabili, come Pasolini, in un duo che ricorda Briseide e Patroclo.
Nel 2019 il direttore (sic) generale del Miur Maria Assunta Palermo ha ribadito in una nota che si tratta di linee guida descrittive, non prescrittive, e ha invitato a soffermarsi su «autori meridionali e autrici». Nonostante questo, e nonostante le tante pubblicazioni accademiche, la manualistica sembra resistere: assorbe le sollecitazioni dell’educazione civica e dell’Agenda 2030, che pure hanno tra le priorità la parità di genere e l’accesso universale all’istruzione, ancora fatica a mostrare come questi valori si siano realizzati nella storia letteraria d’Italia.
Nel mondo editoriale non scolastico, invece, non si contano le operazioni di riscoperta, accanto ad altre vere e proprie operazioni di marketing, sulla cosiddetta letteratura femminile. Le prime, quelle serie, comprendono Le signore della scrittura di Sandra Petrignani, Amatissime di Giulia Caminito, Parole d’altro genere di Vera Gheno. Per le seconde… basta entrare in qualunque libreria.
Per la scuola si presentano tre possibilità: aprire il canone a nuove inclusioni (e qui la casa editrice domanda: che cosa tagliamo per far posto alle autrici?); progettare strumenti che, se adottati, acquistano la stessa dignità del manuale tradizionale (come nel Controcanone Loescher, che rispecchia la fase hegeliana dell’antitesi, in vista della sintesi paritaria); abolire l’idea stessa di canone, optando per quell’“oltrecanone” su cui lavora la Società italiana delle letterate.
Nel suo pamphlet Lo spazio delle donne, Daniela Brogi scrive che «non basta aggiungere nomi», in quanto «servono altre parole e nuove inquadrature», due frasi talmente importanti da trovarsi sulla copertina. Studiare le autrici, come rivendicare diritti, non significa solo posizionarsi all’interno, anziché ai margini, della società, della cultura e della legge; significa mettere in discussione la visione sessista, patriarcale e omolesbobitransfobica che quelle marginalizzazioni ha incoraggiato. Come aveva intuito Mario Mieli con il suo tono provocatorio e dissacrante, convocando insieme femministe e attiviste lesbiche, l’alleanza tra comunità marginali è la via per raggiungere il centro e rifondarlo. Per abbattere il muro del canone non va quindi sostituita una vernice con un’altra: va cambiata la malta. La proposta di autori e autrici da studiare a scuola dovrebbe fondarsi sulla diversity.
Questa bella parola inglese, traducibile con “variegatezza”, pretende rappresentazioni plurali in ogni spazio della vita pubblica, scuola compresa: autori maschi bianchi eterosessuali di destra, ma anche autrici etero, bi e omosessuali più o meno progressiste, persone queer, poete transgender, intellettuali di altri continenti, diversamente abili, neurodivergenti. La diversity non è un modo ponziopilatesco, a quote, per pulirsi la coscienza dopo secoli di discriminazioni, ma ci ricorda che il merito, se non è accompagnato da altre considerazioni, premia persone privilegiate, le cui condizioni di partenza già garantiscono loro risultati soddisfacenti.
Il dialogo femminista di Moderata Fonte, il poema epico di Margherita Sarrocchi – sì, anche le autrici scrivono di ire e duelli – la polemica contro le monacazioni forzate di Arcangela Tarabotti, fino ai romanzi di Ortese e Sapienza, permettono sia di esplorare le molteplici sfumature dell’altra metà del firmamento letterario, sia di mostrare le falle del sistema che le ha iniquamente ostacolate ed escluse. Chi legge e si forma sui loro testi, troverà rispecchiamenti, corrispondenze, linguaggi per imparare a rappresentarsi nel presente.
Le ultime parole dell’Iliade sono «Ettore domatore di cavalli». Il poema si chiude con i funerali di uno straniero compianto dalla madre, dalla moglie e persino da Elena: partendo da quelle lacrime multiformi, che ognuna delle tre donne versa per un’immagine diversa di Ettore, si dovrebbe scrivere un’altra storia della letteratura.
Perseguitaci