Il 14 giugno di ogni anno si celebra la Giornata mondiale del donatore di sangue, istituita nel 2004 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Una data non scelta casualmente, ma che ci rinvia al giorno di nascita di Karl E. Landsteiner, l’uomo che all’inizio del Novecento ha scoperto i gruppi sanguigni, segnando una svolta epocale nel campo delle scienze mediche: basti pensare a quante vite vengono oggi salvate con una semplice trasfusione di sangue nelle emergenze ospedaliere.
Tutto questo non potrebbe avvenire senza il fondamentale gesto di generosità di un immenso numero di donatori che decidono di sottoporsi volontariamente al prelievo. Normalmente noi italiani non siamo abituati a pensare che oggi donare il sangue si configuri anche come un diritto, e a buona ragione: le nostre direttive ministeriali garantiscono la possibilità della donazione a tutti coloro che rientrino in certi parametri, al di là dell’orientamento sessuale.
Sembra scontato? In realtà non lo è affatto: in molti Paesi vige ancora per gli omosessuali il divieto a vita di donare emocomponenti a causa di una serie di pregiudizi stratificatisi nel tempo e non certo dovuti a solide ragioni scientifiche (nelle disposizioni dei vari stati si fa riferimento soprattutto alla categoria degli MSM, ndr).
Non stiamo parlando di nazioni lontane da noi, ma di moltissimi Paesi europei, tra cui Austria, Belgio e Germania. Fino a qualche tempo fa sarebbero state da includere in questo elenco anche la Francia e gli Stati Uniti, che hanno cambiato le loro normative in materia da pochissimi anni, pur piombando in un altro divieto che puzza di pregiudizio e di discriminazione: l’impossibilità per gli omosessuali di donare se non dopo un periodo di astensione dall’attività sessuale di almeno 12 mesi, requisito spesso non richiesto in maniera categorica agli eterosessuali.
Ma facciamo un attimo un passo indietro per capire perché questi Paesi, considerati all’avanguardia su tantissimi temi, adottino tale comportamento. Tutto può essere riassunto con due motivazioni. La prima, quasi ovvia, ha un fondamento storico e sociale: la diffusione di HIV e lo stigma nato verso la comunità gay, accusata di abitudini sessuali promiscue e di essere una delle principali responsabili della trasmissione del virus. Non a caso i primi provvedimenti che impediscono la donazione agli omosessuali vengono varati in momenti diversi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, in un clima di particolare apprensione verso un agente virale ancora trattabile con una certa difficoltà. In molti casi sono quelle norme ad essere ancora in vigore in molte nazioni a distanza di oltre trent’anni.
Anche in Italia, con un certo ritardo, vennero date indicazioni simili, superate definitivamente già nel 2001 grazie all’allora ministro Veronesi. In effetti la sproporzione tra i mezzi scientifici odierni e quelli di un tempo rendono forse comprensibile l’attuazione di una simile restrizione in quel clima di incertezza, considerando la spinta di qualche pregiudizio e la necessità di garantire nell’immediato la sicurezza del sangue raccolto nei centri trasfusionali. All’epoca di fatto non esistevano gli stessi specifici test di laboratorio che oggi possono evitare la trasmissione ai riceventi attraverso un controllo affidabile e routinario delle sacche di sangue.
E così introduciamo la seconda ragione, difficile da ammettere per uno studente del 2017: alla luce di questi avanzamenti tecnici, misure così fortemente coercitive ai nostri tempi sono frutto della debolezza della scienza nei confronti del pregiudizio che continua a essere predominante in certi ambiti. I mezzi di controllo scientifico di cui disponiamo permettono infatti di svolgere verifiche di un certo tipo senza dimenticare che, in aggiunta, la selezione del donatore avviene sempre in maniera molto rigida, imponendo la compilazione di un questionario anamnestico e un colloquio con un medico in sede di donazione. Fermo restando il necessario rigore da applicare in questa fase di attribuzione di idoneità ai donatori, non sussiste motivo alcuno per l’esclusione dei soggetti in quanto omosessuali; in Italia non è contemplato neanche uno stop preventivo di 12 mesi, ma solo uno di 4 che vale per tutti i candidati alla donazione nel caso in cui si siano avuti rapporti a rischio o con partner non stabili, un tempo utile per evitare che i test di controllo per una serie di patologie trasmissibili per via ematica non siano abbastanza sensibili e che il candidato sia certo del suo stato di salute (come potete verificare voi stessi qui).
In Italia, dunque, disponiamo di parametri di valutazione e di regolamentazioni in realtà moderne e sensate rispetto a quelle di molti nostri vicini in Europa, ancora vittime di un ingiustificato preconcetto. Sono molti a fare le spese di una simile politica, soprattutto quelle persone per cui di fatto la donazione si è trasformata in un diritto negato, in un motivo di discriminazione e di umiliazione per il quale le associazioni LGBT+ straniere tentano da anni di innescare un cambio di rotta attraverso la protesta. Dopo diversi anni di dibattiti sulla questione i primi risultati si sono ottenuti, ma come sempre la strada per il riconoscimento di un diritto è molto impervia perché, come ben sappiamo, abbattere un pregiudizio con la forza della razionalità è una battaglia lenta ed estenuante. E in questo caso, a ben poco vale affermare che i progressi della conoscenza sono dalla nostra parte: del resto, la scienza non discrimina mai, sono solo gli uomini a farlo.
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