La prospettiva di una donna lesbica tra due generazioni

Oltre a rimettere insieme i pezzi della vita di Mariasilvia Spolato e provare a ridarle voce attraverso un racconto audio, Prima, la mia seconda serie podcast uscita nel giugno del 2021, è in qualche modo una riflessione sul tempo. La sua stessa premessa è basata su una prospettiva temporale

L’idea della serie è nata infatti in me da una domanda legata a chi siamo o chi avremmo potuto essere dentro un determinato contesto storico: come avrei vissuto la mia vita di persona che si definisce lesbica se anziché nascere nel 1976 fossi nata venti, trenta o quarant’anni prima? L’incontro con la storia di Mariasilvia Spolato nasce proprio da questa urgenza di risposte. Sarei stata in grado di vivere la mia vita senza vergogna, complessi o paure se fossi cresciuta in mezzo a una narrazione morbosa e denigratoria dell’omosessualità? Oppure mi sarei nascosta e avrei condotto una doppia vita? O, peggio, avrei soppresso chi ero e cosa sentivo, sottomettendomi a un destino scritto che non ragionava con me? 

La cosa sorprendente nel lavorare a questo documentario audio è stata scoprire che godevo di una prospettiva privilegiata che si collocava in mezzo a una sorta di divisione del tempo. Da un lato c’era l’esperienza di Mariasilvia e di chi aveva lottato in un’Italia in cui l’omosessualità veniva considerata un vizio da estirpare e una malattia da curare e in cui le donne avevano appena cominciato il loro cammino di liberazione nelle piazze, nei movimenti e nei collettivi. Dall’altro, davanti a me, o meglio dopo, c’era una generazione che con tutta probabilità, non avendo mai sentito parlare di quelle lotte, non poteva neanche lontanamente immaginare come fossero state le cose prima

Prima di iniziare il lavoro, ho realizzato un piccolo sondaggio casalingo. Ho provato a radunare contatti di persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ che fossero nate dopo il 1990 e a chiedere loro quali fossero i libri, le serie tv o i film che le avevano fatto sentire meno sole. Le risposte sono state molteplici. Addirittura, la sorella di un’amica, ventenne bisessuale, non capiva il senso della mia domanda

La rappresentazione, o la sua assenza, non era per lei un tema, perché in qualche modo c’era sempre stata nella sua esperienza. Guardando indietro, invece, una delle rivelazioni più sorprendenti è stata quando ho intervistato per il podcast la poetessa e attivista Edda Billi e alla mia domanda su quale fosse il libro che l’aveva fatta sentire meno sola da ragazzina, ha risposto Il pozzo della solitudine, che anche a me, cinquant’anni dopo, aveva svelato che non ero l’unica donna al mondo che si innamorava di altre donne. Avrei trovato questa comunanza anche leggendo il saggio a cura di Nerina Milletti e Luisa Passerini, Fuori della norma, in cui, fra le tante testimonianze, si raccoglievano quelle di donne lesbiche della generazione di Mariasilvia e tutte, benché di ceti sociali diversi, nominavano il romanzo di Radclyffe Hall come unico tassello del loro percorso di rappresentazione. 

Quel libro aveva toccato anche me. Dico toccato perché non sono sicura dei suoi effetti benefici a lungo termine. Sicuramente conserva in me un valore sentimentale, ma sono anche consapevole dei danni che la sua narrazione tragica dell’omosessualità ha avuto sulla mia consapevolezza. La Stephen protagonista del romanzo è una donna che, per essere se stessa, è costretta a isolarsi dalla società e, addirittura, per arrivare al compimento del suo amore per Mary arriva a rinunciare a stare con lei e a cederla al suo migliore amico, come se, peraltro, Mary fosse un oggetto prezioso che nelle sue mani si deturperebbe. 

Questo è il tipo di morale contenuta in quel libro che era stato l’unica possibilità di riconoscersi per Edda Billi, per le donne di Fuori della norma, forse per Mariasilvia Spolato e sicuramente per me. Ma a quale prezzo? 

Oggi, nel pieno della mia vita adulta, so che quel tipo di rappresentazione è stata deleteria e ha sicuramente contribuito, quando ero adolescente, a farmi sentire sbagliata e destinata alla solitudine. Così come so che, se una persona di vent’anni dovesse leggere quelle pagine, forse sorriderebbe di quel lirismo tragico e molto difficilmente sentirebbe un briciolo di connessione con tutto quel melodramma. Eppure quella rappresentazione era l’unica che c’era. Sarebbe stata meglio l’assenza totale? Nel mio caso non so rispondere. Nel caso di Edda Billi, Mariasilvia e le donne della loro generazione, che si muovevano dentro una reale oppressione da parte della società, mi viene da pensare che sia stato meglio che ci fosse almeno quel libro. In ogni caso, non sto scrivendo queste righe per fare un processo al Pozzo della solitudine, ma solo per sottolineare quanto il viaggio dentro la vita di Mariasilvia Spolato sia stato prezioso per me e per il mio punto di osservazione. Mi è bastato girare lo sguardo, indietro e avanti, per capire che siamo parte di un tempo che fortunatamente non ha mai smesso di scorrere. Ci sono state lunghe fasi in cui è apparso immobile, tanto da rendere la mia esperienza per certi versi più simile alla generazione di Mariasilvia Spolato rispetto a quella di persone più giovani di me di neanche vent’anni. E ci sono stati momenti molto recenti in cui lo scorrere del tempo ha subito accelerazioni potenti e inaspettate, tanto da modificare per sempre lo spettro della rappresentazione e con esso la narrazione della comunità LGBTQ+. Restano domande e risposte da ottenere, ma avere la fortuna di poter osservare le cose che sono cambiate è un grande privilegio.

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