L’ANTI-LINGUA DELLA COMUNITÀ QUEER INGLESE DEL PRIMO XX SECOLO

Polari, Palare, Palare, Palaree sono solo alcune delle versioni con cui si indica il vocabolario che permetteva alla comunità queer, principalmente londinese, del secolo scorso «di indulgere in gossip, bitchiness e cruising» (Baker), ma che rappresentò anche un mezzo di costruzione identitaria di una società. 

Nonostante sia conosciuto generalmente come slang utilizzato negli anni ’50 nel contesto londinese, le origini del Polari sembrano risalire a ben prima di questo periodo, probabilmente fino alla Londra del XVI, tra gruppi di vagabond*, gente  di teatro e ladr*. Il Polari si caratterizzava sin da subito infatti per essere il ricettacolo di moltissime influenze linguistiche, che riflettevano a loro volta la complessità e la varietà di scambi sociali nella stessa comunità: è così che nei locali di Soho nella prima metà del XX secolo, o prima ancora all’interno delle molly house, scorreva tra le mura e le strade affollate una sorta di Esperanto frocio in cui si mescolavano italiano, occitano, spagnolo, yiddish, gaelico scozzese e irlandese ma a cui si aggiungevano altri gerghi o linguaggi in codice che andavano da quello marinaresco fino al Cant dei ladri risalente all’Inghilterra elisabettiana. Ne risultava un lessico eclettico ed eterogeneo, ricco non solo di prestiti linguistici ma anche acronimi e termini che assumevano nuovi significati, mentre la base sintattica e grammaticale rimaneva quella dell’inglese. 

Come sottolinea Paul Baker, tra l* prim* e più importanti linguist* che lo hanno studiato, la caratteristica principale del Polari è quella di presentarsi come un cripto-linguaggio, derivante da una necessità di protezione e tutela all’interno di una società in cui le istituzioni legislative, mediche e religiose stigmatizzavano e punivano l’essere queer. 

Alla dimensione di segretezza tuttavia non si lega solamente la necessità di protezione, ma anche e soprattutto la consapevolezza di creare un sistema sociale e culturale, oltre che linguistico, non solo alternativo, ma fortemente contrapposto al contesto in cui s’innesta: bona, per esempio, non significa semplicemente “buono”, «non si tratta di una traduzione diretta – significa “buono” all’interno dei valori della comunità che utilizza il Polari» (Baker).  Si delinea quindi come quello che Halliday definirebbe un’ anti-lingua, ovvero un tipo di linguaggio che forma e si forma all’interno di un’ anti-società disubbidiente e contrapposta a una società che la esclude e marginalizza

Secondo lo stesso principio di tutela e creazione alternativa di valori si sono creati, specialmente nel secolo scorso, una serie di gerghi che hanno assunto le connotazioni di anti-lingue: esempi ne possono essere il Pajubà, usato dalla comunità queer brasiliana e principalmente tra le donne trans, o l’IsiNgqumo utilizzato dalla comunità nera sudafricana e basato sulla lingua Zulu che si pone in convivenza e contrapposizione al Gayle, utilizzato principalmente dagli uomini omosessuali bianchi.

Dagli anni ’60 l’utilizzo del Polari vede un rapido declino, dovuto principalmente al venir sempre meno della necessità di nascondere pubblicamente la propria identità queer, fenomeno legato al processo di depenalizzazione dell’omosessualità conclusosi in Inghilterra nel 1967. Già nel 1965, Round The Horne, programma radiofonico della Bbc che andava in onda nell’insospettabile domenica pomeriggio alla presenza di un’audience composta da famiglie, presentava due personaggi esplicitamente gay, Julian e Sandy, che inserivano numerose frasi in Polari per evitare la censura e contemporaneamente deridere la stessa Bbc. Tuttavia quelle frasi di Polari lasciate ad appannaggio della massa sdoganavano la dimensione chiusa e segreta dei locali e dei quartieri londinesi, invalidandone la funzione primaria e segnandone così il declino. 

Oltre al lascito di qualche vocabolo, che in alcuni casi ha raggiunto anche l’italiano (es. butch, dyke), il Polari è degno di nota se letto all’interno della sua formazione nel corso dei secoli e nella sua testimonianza di come all’interno di una società che esclude, non prevede o marginalizza determinate identità, la costruzione delle stesse e del loro portato dissidente passi proprio attraverso la lingua.

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