
Antinovecentesco secondo Pasolini, colui che ha rifiutato senza fare una piega ogni moralismo del suo tempo secondo Garboli, inviso a una certa fetta di intellettuali del Novecento, Sandro Penna è sicuramente una delle voci più maldestramente ignorate della poesia italiana. Lui che metteva «Sempre fanciulli nelle mie poesie!» e aggiungeva «Ma io non so parlare d’altre cose» si è contraddistinto come parente scomodo, nato borghese nel 1906 per sperimentarsi poi in svariati lavori, dal contabile all’allibratore al correttore bozze, per fare confluire infine nei suoi versi una chiara lettura delle ombre di rapporti e relazioni non particolarmente raccontati. L’incontro con Saba lo proiettò verso il mondo intellettuale dove trovò una comunità e un riconoscimento del suo lavoro poetico, ma senza che questo riuscì mai a sottrarlo alla povertà economica che lo accompagnò per tutta la vita. Mentre andava a zonzo con un cane lupo per le borgate romane, sicuramente ancora ricordava l’astio di Montale che, forse invidioso, aveva sempre mal commentato i versi di Penna, coniando per lui e altri amici l’espressione insultante “Pennerasti”. Beh, seguendo Penna per le sue borgate, fino alla morte in solitudine nel 1977, e ritrovandolo nei suoi versi occorre dire: «Felice chi è diverso», e forse un grazie pure a Montale, che nell’insulto ci ha regalato una possibilità di riappropriazione, perché da allora in poi, possiamo essere tutte e tutti Pennerasti.
Illustrazione di Claudia Marulo
Perseguitaci