Il libro Silvia è un anagramma, scritto da Franco Buffoni nel 2020 ed edito da Marcos Y Marcos, che ha preceduto Vite negate, di cui abbiamo parlato un anno fa, si apre con un verso di Saffo: «In che peccai bambina?», trasformandolo nella domanda che tutte le persone queer si pongono quando si sentono rifiutate da chi hanno intorno, persone che «amano una persona che non esiste, perché non possono e non vogliono accettare quella che c’è, così com’è». Più nello specifico, in quella pagina Buffoni parla di adolescenti.
Per le persone queer questa è una storia già nota: spesso durante l’adolescenza si scopre la propria identità, si decide di uscire allo scoperto attraverso il coming out, oppure di aspettare ancora, talvolta per paura di quel rifiuto che Buffoni evoca nella prima pagina del suo libro. In entrambi i casi la vita, in particolare quella scolastica, non offre molti modelli in cui riconoscersi.
Il mio liceo era una scuola di provincia, l’ho frequentato durante gli anni del dibattito sulle unioni civili e della legge Cirinnà e ə prof si impegnavano a organizzare discussioni sull’argomento: la maggior parte della mia classe era contraria, qualcunə favorevole era subito tacciatə di essere segretamente gay; infine c’erano quellə come me, adolescenti queer ancora closeted, combattutə tra la voglia di urlare contro chi dava voce alla sua omolesbobitransfobia e il voler restare nascostə ancora per un po’. La prospettiva era a dir poco desolante: dovevamo scegliere tra l’essere o del tutto inesistenti o obbligatə al coming out.
E poi c’erano le ore di letteratura, tra un Oscar Wilde spiegato in dieci minuti con annesso silenzio sulla sua vita personale, Umberto Saba e il mai citato romanzo Ernesto, e Giacomo Leopardi, affrontato parlando per ore di Silvia e nominando (forse) una volta Antonio Ranieri. Quasi impossibile – almeno per me – trovarsi davanti a queste biografie irrisolte senza sentire una qualche vicinanza, non porsi delle domande.
Proprio per tentare di dare una risposta a queste domande, Franco Buffoni scrive Silvia è un anagramma, un saggio che, «per doverosa giustizia biografica», prova a ricostruire le vite di tre grandi poeti della letteratura italiana, Leopardi, Pascoli e Montale, e per ciascuno di essi esamina lettere, testimonianze di incontri, interpretazioni di poesie, collegamenti con membri di spicco dei movimenti omosessuali dell’epoca. Tracce di vita che messe insieme dipingono un quadro forse non sufficiente per avere certezze, ma abbastanza per aprire la discussione. Questi poeti, figure arcinote e presenti in ogni programma scolastico, erano gay? E se sì, ciò ha segnato la loro vita e quindi le loro opere? E come rispondere a chi sostiene che non ci sono le prove per dire una cosa del genere?
Leggendo il saggio di Buffoni ci rendiamo conto che, mentre la risposta alla seconda domanda non può che essere affermativa, non si può dare una risposta certa alla prima, e non è neanche questo l’intento dell’autore.
Il libro si pone un obiettivo preciso: capovolgere l’assunto secondo il quale ogni persona sia da considerarsi eterosessuale finché non emergono evidenze che affermano il contrario e ci chiede di fare il ragionamento opposto, di non assumere l’eterosessualità come certezza e l’omosessualità come qualcosa da dover includere in una biografia solo in presenza di elementi inequivocabili. Questo non al fine di fare gossip sulle vite di persone ormai scomparse, ma per comprendere quanto le vite e le opere d’arte che tuttə studiamo a scuola siano state influenzate dal contesto omofobico in cui le stesse sono state concepite e prodotte, e quanto questo sia fondamentale per capirle appieno.
E così, indagando la vita privata degli autori e leggendo con occhio diverso poesie e romanzi, quelle che possono sembrare ipotesi del tutto implausibili e senza fondamento iniziano ad acquisire un carattere di possibilità.
Buffoni critica l’atteggiamento del mondo accademico italiano, ancora resistente alle istanze degli studi di genere e convinto nell’escludere che alcuni autori fossero omosessuali, a causa dell’omofobia (compresa quella interiorizzata) ancora radicata.
Silvia è un anagramma non è dunque da considerarsi solo come un semplice tentativo di riscrivere la biografia di personaggi noti alla luce di elementi sottovalutati, ma piuttosto come un’analisi dei processi, di autocensura prima e di cancellazione poi, messi in atto sull’opera di Leopardi, Pascoli e Montale, fornendo un modello di indagine potenzialmente applicabile anche ad altrə autorə (nel libro sono nominati anche Cesare Pavese e Carlo Emilio Gadda, oltre a numerose figure meno note), cercando di aprire uno spiraglio attraverso cui iniziare finalmente a dare giustizia alle vite queer del passato, oltre alla possibilità, per le persone queer del presente, di rivedere sé stesse.
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